Tragedia e commedia identificano due mythos (intrecci) distinti, ma non troppo, come talvolta si crede. Il confine che le separa è spesso sottile, e una “stessa” storia può convertirsi e precipitare in tragico o trovare uno sbocco felice e farsi commedia. In definitiva, ciò che fa tragedia o commedia è il finale, in cui viene a chiudersi il movimento “ciclico” che ogni intreccio porta con sé. Nella tragedia, si parte da una iniziale felicità per poi precipitare nel dolore e nella morte. Nella commedia, all’opposto, il passaggio è da un inizio difficile, problematico, a un approdo caratterizzato da un “riconoscimento” felice.
Cosa significa riconoscimento felice, e cosa accade nel mezzo, nell’attraversamento della crisi fino alla soluzione felice della fine definisce lo spirito della commedia.
In Capitolo Due di Neil Simon, messo felicemente in scena da Massimo Civica per Romaeuropa e ora in tournée, il problema iniziale risiede in una perdita e in un lutto: George, di ritorno dall’Europa, è nel suo appartamento newyorkese e non riesce a dimenticare la moglie da poco scomparsa; Jennie, da poco divorziata dopo sei anni di matrimonio ben poco felice, sta nel suo. Non è tanto la comune condizione di solitudine e perdita ad accomunarli, quanto la voglia di non superarla. Un desiderio di restare là dove si è, senza voglia di incontrare nessuno. Rispondendo all’amica Faye, che spinge per farle superare tale condizione, Jenne dice: «Faye, how many times must I tell you? I don’t feel like dating right now» «Well, that’s perfect. Neither does George Schneider. At least you have something in common» ribatte Faye (Simon 1979, p. 652).
Questo qualcosa di comune è dunque la condizione tipicamente tragico-melodrammatica in cui il soggetto si chiude in se stesso, perimetrando con forza il suo spazio, orientando la sua spinta vitale verso il passato. Quello che fa George, che arriva perfino ad immaginare che la moglie continui ad essere ancora viva solo per lui, a dispetto degli altri: «The whole world thinks she’s gone, but we meet clandestinely in London» (ivi, p. 639).
Il soggetto è aspirato dal suo passato, o bloccato da esso (tema tragico-melodrammatico). In questo quadro, sono le figure vicine ai due che orienteranno il dramma verso la commedia. Oltre a Faye c’è Leo, il fratello di George, che spinge affinché il fratello si orienti verso un nuovo inizio, un “secondo capitolo” della sua vita. Faye e Leo avranno tra l’altro una parallela storia, ma clandestina.
Ci vuole del tempo affinché il soggetto sia pronto a un nuovo inizio, ma non è detto che il tempo basti. Questo nuovo inizio presuppone il ribaltamento della resistenza iniziale nel suo opposto. George e Faye superano la loro diffidenza ad aprire una nuova vita, scegliendo un matrimonio improvviso e rapido. La decisione troppo veloce sta più dalla parte della necessità di un autoconvincimento che di una scelta radicata in un sentimento. Tant’è che alla fine della luna di miele il risentimento domina, «I resent you for everything» (ivi, p. 714) dice George, e il passato incombe.
Allora George, scrittore di gialli di successo, deciderà di prendersi una pausa ed andare ad Hollywood, dove lo cercano. Ed è a quel punto che, in un monologo molto intenso, Jennie saprà rispondere cambiando l’ordine delle cose, accusando George di non fare il minimo sforzo per essere felice, ma che nonostante questo lei non rinuncia ad amarlo: «[…] Because you won’t even make the slightest effort to opt for happiness – and still know that I love you» (ivi, p. 727). E insiste, dicendo che se lui vuole lasciarla, lo faccia, lei non sarà quella che se ne andrà. In un passaggio memorabile, lo mette alle strette, lo inchioda alla sua responsabilità: «… You want me, then fight for me, because I’m fighting like hell for you» (ivi, p. 728).
Questo monologo cambierà le cose, George non andrà più a Los Angeles. Quando telefonerà a Jennie tutto sarà cambiato. Le dice che si è chiesto che cosa sarebbe successo se invece di andare in California fosse tornato da lei. E la risposta è semplice, sarebbe stato felice: «And the answer was so simple… I would be happy! I’ve stared happiness in the face, Jennie – and I embrace it» (ivi, p. 736).
Nello spettacolo, sulla scena domina l’orizzontalità, i due appartamenti sono montati contigui senza alcuna necessità di verosimiglianza, senza la grande differenza tra i due ambienti che sottolinea invece Neil Simon, in cui George vive in «one of New York’s older buildings» and Jennie in una delle «uninteresting boxes they build today» (ivi, p. 635).
I personaggi (tutti ottimamente interpretati) più che interagire direttamente tra loro, guardano frontalmente. A loro è affidata anche la cucitura “epica” del racconto del tempo che passa, oltre a quella “comica” di simulare il trillo del telefono o il campanello della porta. Ciò rende dominante il tratto “riflessivo” del lavoro di composizione, attenuando il carattere “diretto” di dialoghi e relazioni tra i personaggi. Ma gli effetti comici della drammaturgia di Neil Simon non si attenuano.
Fino a quando nel fermo immagine finale, con George e Jennie al telefono, vicini sulla scena ma di fatto distanti, perché ancora nei rispettivi appartamenti, irrompe la canzone di Lucio Battisti Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, con i versi: «Come può uno scoglio arginare il mare».
Le incertezze della volontà, davanti alla crisi di un uomo abbandonato dalla sua donna e che ha trasformato la sua casa in un tempio, cedono davanti all’irrompere dell’amore, per cui «Anche se non voglio, torno già a volare». Il fermo immagine si trasforma lentamente in una dissolvenza in nero che chiude lo spettacolo.
Resta una domanda. Il Capitolo Due di cui parla Neil Simon è solo quello della ripresa della vita dopo la fine di una relazione, la morte della moglie (è noto il carattere autobiografico della storia), o è anche il “secondo capitolo” del matrimonio di una coppia, dove dopo l’illusione iniziale, culminata nel matrimonio improvviso, e la disillusione, la crisi e il risentimento, che precipitano nella scelta di George di andare via, si riprende con slancio e convinzione?
Il “capitolo due” è anche il “ri-matrimonio” (di cui parla Stanley Cavell per le commedie americane) subito dopo la crisi. E le parole di verità di Jennie nel suo monologo sono il passaggio necessario, la precondizione per un nuovo inizio, dopo la minaccia di una fine rapida. Bisogna voler essere all’altezza del proprio sogno di felicità, che difficilmente sarà compiutamente attuato, ma che senza tale volontà non si ha alcuna chance di realizzarlo: «But if you don’t want it, you have got even less chance» (ivi, p. 728).
Per il “capitolo due” della vita, di ogni vita, un capitolo che si deve poter aprire ogni volta di nuovo, bisogna avere coraggio, e questo coraggio riguarda da un lato il riconoscimento del carattere relativo, limitato, condizionato delle nostre esistenze; dall’altro un necessario profondo amore verso noi stessi, che arrivi al punto di poter prescindere anche dal giudizio dell’altro. Come dice ancora Jennie: «But I’ll tell you something, George. No matter what you say about me, I feel so good about mysef» (ivi, p. 727).
Capitolo Due di Neil Simon. Spettacolo di Massimiliano Civica; scene: Luca Baldini; costumi: Daniela Salernitano; luci: Gianni Staropoli; interpreti: Maria Vittoria Argenti, Ilaria Martinelli, Aldo Ottobrino, Francesco Rotelli; produzione: Teatro Metastasio di Prato, in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello; durata: 135′; anno: 2024.