In Melancholia (2011) di Lars von Trier il personaggio di Justine si trova di fronte a una vita apparentemente perfetta: lavoro creativo e remunerativo in ambito pubblicitario, connessioni con l’élite, matrimonio da favola in un maniero affacciato sul mare ospite della sorella e del ricchissimo cognato. Perché allora decide di far saltare il tavolo? Perché il godimento senza falle apparenti le lascia uno strascico di melancolia irredimibile? Si potrebbe rispondere, lacanianamente, che a Justine manchi la mancanza.

L’insegnamento fondamentale di Jacques Lacan riguarda forse lo strano effetto che fa sull’esistenza il grande Altro: essere immersi da sempre nelle acque del linguaggio crea il debito d’ossigeno cui lo stesso linguaggio vorrebbe rimediare. Il curioso destino dell’uomo di fronte a tutto ciò è quello di potersi affrancare solo attraverso le “catene” del simbolico. Fabio Vighi ci rammenta nel suo Crisi di valore, edito da Mimesis nel 2018, che «solo un’intricata e […] ambigua mediazione tra il Reale del godimento e le significazioni del Simbolico può condurre il soggetto sulla soglia del mondo fatato del senso» (p. 11). L’equilibrismo tra il caos delle profondità e le sirene delle altezze può infatti avvenire solo a pelo d’acqua, sfiorando la cortina del senso (Deleuze 2009).

Crisi di valore, oltre a proporre un’efficace lettura lacaniana di Marx, ci accompagna su di un filo sospeso, in equilibro tra chaos e cosmos, lungo il crinale psico-politico della contemporaneità, al tempo del capitalismo reale, o, per dirla con Mark Fisher, del “realismo capitalista”. L’idea (marxiana) di fondo di Vighi è che il capitalismo sia al collasso e stia facendo di tutto per negarlo. L’ombrello simbolico che ci proteggeva dalla tempesta caotica del Reale è andato perduto sotto il vento sferzante della valorizzazione economica: il godimento senza desiderio, la jouissance mortifera senza piacere, ha dunque improntato di sé la nostra quotidianità condannandola a una depressione mascherata da carnevale social-mediale.

L’alienazione metafisica del post-moderno ci asservisce al feticcio delle forme del valore economico. Il feticismo del capitale come forma-valore (Wertform) maschera l’inconsistenza del grande Altro attraverso una manovra perversa di matrice sostanzialmente masochistica: il nostro piegarci al dio-merce denega disperatamente l’evanescenza di ogni orizzonte socio-simbolico (Vighi 2018, p. 15). Nel proporre noi stessi come “oggetti del godimento” a beneficio del capitale, nel lasciarci guardare dal capitalismo mentre godiamo incessantemente e senza piacere di beni che non desideriamo, stiamo in realtà tentando inconsciamente di rianimare l’Altro, dimenticando la lezione di Lacan per cui non esiste un altro dell’Altro.

Per Vighi a questo punto non si può far finta di niente. È tempo di rigettare tanto le tentazioni nostalgiche di restaurazione dell’antico sistema di valori quanto la perversione post-moderna intenta a riempire il nulla scaricandovi un feticcio dopo l’altro, una merce dietro l’altra. Il nulla non va liberato, ma dichiarato (p. 19): si tratta di farsi carico del proprio male e, allo stesso tempo, di confrontarsi con il Reale del godimento; in altre parole, bisogna accettare l’insensatezza del sintomo e portarlo con sé come una finzione necessaria. L’Altro non può aiutarci, ma dobbiamo dargli la mano mentre attraversiamo il bosco. È vero, in fin dei conti stiamo dando la mano a un fantasma, ma senza quella mano impazziremmo. Per Vighi, con Lacan, solo un’altra alienazione può salvarci dal capitale.

Il riferimento fondamentale di Crisi di valore è senza dubbio il Seminario XVII di Lacan, tenuto in pieno clima post-sessantottino, in cui viene sviluppata una vera e propria topica del discorso (Lacan 2001, p. 279). A questo punto della riflessione lacaniana, il focus è stato spostato dal desiderio al godimento, dal simbolico al Reale. Più precisamente, il sintomo è divenuto «coagulo di godimento pulsionale, muto e irriflesso, che dà forma alla discontinuità del discorso e allo stesso tempo ne garantisce la consistenza» (Vighi 2018, p. 27). In altri termini, più strettamente deleuziani, il non senso nasce dall’eccesso di senso, il godimento determina l’impasse dell’orizzonte sociale e allo stesso tempo lo inonda di desiderio e carica pulsionale.

Ma come si articola la topica lacaniana in relazione a questo orizzonte socio-simbolico? I quattro discorsi, del padrone, dell’isterico, dell’analista e dell’università, strettamente connessi e rappresentati attraverso formule per cui un quarto di giro in senso orario conduce da un discorso all’altro, vengono integrati attraverso il “discorso del capitalista”, cui Lacan fa cenno durante un intervento tenuto alla Statale di Milano il 12 maggio 1972 (Lacan 1978). Il fulcro dell’operazione lacaniana su Marx è il nesso tra plus-godere e plusvalore (Marx 1980). In quanto mediato dal lavoro, «il plusvalore è in realtà plusgodere» (Vighi 2018, p. 41). La trasformazione operata dal capitalismo sul lavoro lo spoglia della sua componente desiderante. Lavorare, infatti, significa avere a che fare con un savoir-faire inconscio: il lavoro è la messa in pratica di un non-sapere, vale a dire di un sapere inconscio. È attraverso ciò che non so che mi metto in gioco: il servo desidera sapere, il padrone no. Ebbene, il capitale, attraverso l’astrazione totalizzante del sapere, attraverso la quantificazione del saper-fare operata dal discorso dell’università, ha rinunciato al discorso del padrone per mettere la sordina al desiderio dell’operaio.

D’altro canto, il discorso isterico dei sessantottini, come rimproverato da Lacan, ha destabilizzato il discorso del padrone senza sapere che quest’ultimo aveva già mutato forma, grazie all’astrazione scientifica, sostituendo alla repressione un potere asettico e invisibile – la morsa del “democratico” valore di scambio (Vighi 2018, p. 49). In altre parole, il plus-godere – il più-di-godimento tra la mancanza desiderante e l’eccesso di desiderio – è stato trasmutato dal discorso capitalistico, più che mai nella sua versione post-fordista, in plus-valore. L’uomo (il lavoratore) senza inconscio (Recalcati 2010) è caduto nella ragnatela della perversione: il perverso nega infatti la mancanza nell’Altro, non si vuole arrendere alla sua inconsistenza, e dunque si offre come oggetto-feticcio al suo godimento, pur di preservarne l’onnipotenza. È così che ci siamo “venduti” al mercato, detto brutalmente. Ci siamo sottomessi all’imperativo perverso (Godi!) pur di far mancare la mancanza, pur di non fare i conti con il sintomo nell’epoca in cui il male fa più male, al tempo in cui il trauma del Reale ci piove addosso e l’Altro (la religione, la politica, l’arte) non ci offre più alcun riparo e conforto.

Ma la manovra perversa denega altresì blandamente l’avvitamento da spirale distruttiva dell’utopia post-fordista. L’oggetto della pulsione capitalista (il profitto) si scontra infatti con il nucleo inemendabile, con la meta mortifera e ripetitiva della valorizzazione infinita. Disgraziatamente, il plus-godere non si accontenta mai, poiché al cuore del meccanismo scientifico della produzione capitalista sussiste il discorso dell’inconscio, la jouissance intrattabile, la fessura che non si può suturare, nonostante la quantificazione e la volatilizzazione del lavoro, nonostante i sacrifici sull’altare del feticismo di mercato (Vighi 2018, p. 97). Le merci e i saper-fare invecchiano, mentre il non-saperci fare continua a bussare, il sintomo chiede il suo tributo alla vita post-moderna e nessun oggetto basta a ripagarci di un’alienazione senza piacere.

La mercificazione del lavoro (astratto e contabilizzato) e la feticizzazione del lavoratore (trasformato da soggetto del desiderio a oggetto di godimento per il capitale) si traducono nella reificazione della vita umana, in un progetto sostanzialmente totalitario il cui contraltare psicologico è la perversione quando non addirittura la schizofrenia. La foratura (crevaison) del discorso del capitalista prevista da Lacan si realizza nelle forme contemporanee del ricorso al credito a sostegno della valorizzazione infinita e inane del ciclo di accumulazione. Di fronte alla crisi del lavoro, il plusvalore si contrae inevitabilmente, dovendo quindi ricorrere alla finanza per saziare la bulimia senza fine della dinamica espansiva.

Negando perversamente il carattere non-sensico, mancante, desiderante del lavoro e riducendolo ad astrazione quantificabile, il capitale baratta il difetto con l’eccesso, disconoscendo l’inscindibilità tra resto e surplus. Il godimento è possibile solo in difetto, laddove la panoplia delle merci offerte dal mercato vorrebbe saturare ogni falla, ogni buco, facendo del desiderio un bisogno e anticipando, inventando, indirizzando la domanda. È «la strategia feticistica che contraddistingue l’economia libidica del perverso» (p. 112). Si assiste così a una torsione clinico-politica: l’isteria si muta in perversione, l’ossessione in schizofrenia paranoide, il lutto in depressione anedonica (p. 205). E così, l’inconscio sacrificato dalla scienza ritorna nella pulsionalità del capitale, a partire dalle manifestazioni dei sessantottini, passando per la strategia della tensione degli anni settanta, fino al narcisismo esibizionista dei selfie: si tratta, a differenti livelli etici, delle diverse ricadute di un medesimo discorso. Il soggetto perverso post-moderno chiede disperatamente all’Altro di palesarsi attraverso provocazioni continue, destinate a cadere nel vuoto.

Per ogni domanda c’è una merce pronta a non soddisfarla, mentre la ruota del capitale continua a girare, ignara del collasso a-venire. Ciò che viene messo da parte in tutto questo è il vuoto al centro del soggetto che rispecchia quello al centro della Cosa (Žižek 2013). C’è un’impasse al cuore dell’essere che mina irrimediabilmente l’utopia capitalista e fa della sua crisi un “interregno psicotico” (Vighi 2018, p. 177) tra due alienazioni. Nel tentativo di disciplinare, di imbellettare il caos, scienza e capitalismo, entrambi ignari della propria radice pulsionale, scatenano il senza-fondo. Non possiamo avere nostalgia del vetro appannato delle antiche strutture sociali. Ma, nell’allucinazione psicotica del capitale, il vetro sta per infrangersi sotto i colpi dell’automazione, della reificazione e della mercificazione. Di questo passo, anche un discorso “follemente astuto”, come è quello del capitalista secondo Lacan, è “destinato a scoppiare”.

Del resto, non c’è un “fuori del capitale”. Anche se dentro un sottomarino, stiamo andando a fondo. Eppure, attraverso gli oblò, potremmo godere dell’abisso senza annegare. Secondo Vighi, sarà l’inconscio a bussare – il sintomo ci risveglierà. Dovremo allora fare i conti col desiderio, con l’entropia del plus-godere (Vighi 2018, p. 57), e ammettere a conti fatti che il più-di-godimento non si può contare. Dovremo inevitabilmente riconoscere che si gode in perdita e non nel guadagno – che il guadagno è la perdita, e non la perdita è guadagno.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Logica del senso [1969], Feltrinelli, Milano 2009.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001.
J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, in G. Contri, a cura di, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978.
K. Marx, Il capitale. Libro primo [1867], Editori Riuniti, Roma 1980.
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010.
F. Vighi, Crisi di valore. Lacan, Marx e il crepuscolo della società del lavoro, Mimesis, Milano 2018.

S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, Ponte alle Grazie, Milano 2013.

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