di ANGELA MAIELLO
Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno) di Ruggero Eugeni.

Black Mirror (2011-)
Con oltre 83 milioni di follower su TikTok Khaby Lame è l’italiano più famoso del globo: in pochissimo tempo i suoi video, le sue performance mute in cui con ironia mette alla berlina altri contenuti della rete, hanno spopolato in tutto il mondo, dandogli una popolarità social che supera anche i più noti nomi dell’industria digitale mondiale, da Chiara Ferragni a Mark Zuckerberg. Nella prospettiva di una teoria del cinema e dei media il caso di Khaby Lame offre molti spunti, dalla rimediazione del cinema muto nei social media al rapporto tra corpi, interfaccia utente e forme espressive nella partecipazione interattiva predisposta da TikTok. Se si vuole provare a comprendere la direzione sulla quale si stanno muovendo le forme creative della cultura partecipativa e le prassi legate a immagini e contenuti generati dagli utenti è in questo enorme pozzo senza fondo, in questo flusso ininterrotto di immagini e suoni, che bisogna guardare.
Nella sua planetaria visibilità, l’incredibile successo del ragazzo italiano si presenta, allora, come un caso emblematico di quell’intreccio sempre più complesso che si va determinando tra immagini, industria mediale e politica. Dal potenziale monetario del profilo di Khaby Lame al dibattito sul tema della cittadinanza per i figli di immigrati in Italia, dal potere mediale ed economico del social network cinese al valore partecipativo delle performance, i video di Khaby Lame si presentano come l’epifenomeno di una medialità sempre più stratificata, la punta dell’iceberg di quella plenitudine digitale, in cui l’immagine diventa il centro di mondi e prassi.
Questo intreccio tra politica, media ed economia è sostanzialmente all’origine dell’estetica visuale della contemporaneità. L’attuale stadio dell’evoluzione delle forme e delle prassi legate all’immagine in movimento può essere colto come ultimo provvisorio momento di quel processo di industrializzazione dell’artefatto visuale, di serializzazione e appropriazione dell’immagine, da parte di quello che un tempo si definiva spettatore, processo che ha intrinsecamente un potenziale politico, che però forse sfugge ormai alla nota opposizione benjaminiana tra la politicizzazione dell’arte e l’estetizzazione della politica.
È significativo che quando all’inizio del nuovo millennio le tecnologie della rete si sono diffuse su larga scala, questa innovazione tecnologica è stata accompagna dalla forte spinta di una nuova forma di ideologia liquida: la rete rappresentava l’opportunità di democratizzazione dell’informazione, della conoscenza, la promessa di uno spazio di libertà e partecipazione, che avrebbe potuto, anche attraverso la diffusione delle tecniche dell’immagine, contribuire alla costruzione di una collettività planetaria più libera. A distanza di più di vent’anni da quella promessa, la riflessione politica sulla rete e in particolar modo sulla cultura partecipativa deve fare i conti con un sistema economico tutt’altro che aperto: la partecipazione, che si esplica innanzitutto attraverso la creazione, manipolazione e riappropriazione dell’immagine, è diventata la merce più preziosa di un commercio di dati, in cui pochi soggetti economici determinano le forme di vita dell’intero globo. E se quella vita digitale diventa sempre più la forma ibrida dell’esistenza umana, il loro potere diventa smisurato. La rete, in altre parole, sembra essere diventata il dispositivo per eccellenza del tecnoliberismo.
Chiunque oggi si occupi di media non può non tener conto di questa configurazione economico-politica che determina lo spazio mediale e digitale che abitiamo. Questa necessità, teorica ed etica, deriva dal fatto che in gioco non c’è soltanto una specifica economia dell’intrattenimento digitale, qualora mai l’intrattenimento fosse “solo” intrattenimento. Le tecnologie dell’immagine digitale e della sua condivisione in rete, piuttosto, determinano nuove grammatiche, nuovi linguaggi, nuovi modi di stare al mondo e di socializzare. La posta in gioco è altissima.
Il grande merito del libro di Ruggero Eugeni è quello di affrontare questo intreccio fittissimo, tra economia, immagine e datificazione dell’esperienza, tra estetica ed etica, senza porgere il fianco all’ideologia del tecnoentusiasmo, né a quella della tecnofobia. Eugeni, invece, ci propone una storia critica di questa evoluzione delle tecnologie dell’immagine, a partire da un’inedita cornice, quella appunto dell’intreccio tra l’economia della luce, quella del visuale e infine quella dei dati, muovendosi attraverso l’analisi di specifici dispositivi postmediali.
Gli snodi teorici di questa operazione sono significativi. In primo luogo Eugeni chiarisce che nell’analisi dei dispositivi mediali convivono tre livelli, di articolazione e governamentalità: quello tecnico dell’apparecchio, quello sociale e antropologico dell’assemblaggio e quello discorsivo e culturale dell’apparato (Eugeni 2021, p. 31). Questi livelli, che interagiscono nello sviluppo dei dispositivi, sono determinati da azioni dall’alto e da contro-azioni, continue riconfigurazioni, per cui i dispositivi non sono mai meri referti di una situazione economico-politica fissa, quanto reperti, in chiave archeologica, di uno sviluppo in continua trasformazione. L’obiettivo dichiarato del volume è quello di mostrare la logica di integrazione che attraversa le evoluzioni dei dispositivi mediali, dall’Ottocento a oggi, e che coinvolge l’economia della luce, quella del visuale e infine quella dei dati. Eugeni identifica un passaggio cruciale in questo intreccio ed è quello che segna il passaggio da una economia produttiva ad una estrattiva. In questa ottica la connessione dell’economia del visuale a quella dei dati determina la produzione di un agglomerato di informazioni, che da un lato possono essere analizzati ed esaminati, dall’altro possono essere oggetto di nuove visualizzazioni, in una sorta di circolo continuo tra estrazione, manipolabilità e visualizzazione.
Attraverso l’analisi accurata dei dispositivi della visione, quelli della visione plenottica (che trasformano il mondo visibile in un modello ordinato), quelli della visione implementata (che prolungano la capacità biologica di afferramento del mondo al fine di dispiegare una operatività) e delle forme di interazione che i dispositivi mediali predispongono, Eugeni arriva a declinare il tema heideggeriano del mondo che si fa immagine, in un’opposizione centrale per il dispiegamento della modernità tra il guardare e il guardato, che però arriva a mettere in questione il soggetto della visione, che diventa a sua volto oggetto della stessa. Alle tecno-immagini prodotte-estratte dai nuovi dispositivi mediali, in cui visuale e datificazione si uniscono, Eugeni dà il nome di algoritmo. Con una mossa teorica, per certi versi non immediata, l’autore prova a risignificare questo termine: gli algoritmi sono processi che non manipolano unicamente dati, ma determinano «le relazioni reciproche tra una certa quantità di dati, una certa quantità di lavoro da parte dello spettatore (e di dispendio energetico di una macchina) e una certa quantità di luce attivata nei pixel di uno schermo» (ivi, p. 281). Gli algoritmi, così intesi, potenziano e rilanciano la logica di controllo e appropriazione del mondo tipica della modernità, attraverso la reciprocità tra il farsi immagine del mondo e il farsi mondo dell’immagine, in una perfetta integrazione tra costituzione ed esibizione dell’immagine.
Al centro di questa integrazione c’è lo spettatore diventato utente. Il capitale algoritmico allora, è l’accumulo della nostra sempre più ordinaria e allo stesso tempo pervasiva attività di produzione di tecno-immagini, che può o meno diventare risorsa nelle mani di pochi. Ma allo stesso tempo, il capitale algoritmico è anche il potenziale creativo di ciascuno di noi, che può o meno concretizzarsi in un atto politico capace di creare nuove relazioni e nuove modalità di circolazione delle tecno-immagini, istituendo nuovi modi di fare mondo. Come scrive Eugeni, la responsabilità di chi studia i media è anche quella di provare ad aprire o quanto meno a rintracciare nuovi orizzonti.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca delle sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-1939), a cura di F. Desideri, Donzelli, Roma 2017.
A. Fish, Technoliberalism and the End of Participatory Culture in the United States, Palgrave, London 2017.
M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968.
Ruggero Eugeni, Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno), Scholé, Brescia 2021.
Un ottimismo di fondo che non mi pare condivisibile.
Quello che vediamo è una spinta ad uniformare e normare qualsiasi produzione col chiaro fine del controllo e del commercio.
Credo che se non si abbia la forza di abbandonare definitivamente le speranze utopiche sulla democratizzazione derivante dalla condivisione si finisca inevitabilmente fuori strada.
Oggi condividere è adesione e adeguamento. Lo spazio per eventuali spinte creative é solo illusione.