Visage Villages (Varda, 2017).

Mai come quest’anno al concorso del Festival di Cannes si sono mostrate le aporie del cinema d’autore internazionale. Aporie legate evidentemente ai modi di produzione e a un sistema dell’immaginario che è,  anche economicamente, in violenta ridefinizione (si pensi all’entrata di soggetti come Netflix), ma anche, inscindibilmente, a delle difficoltà di “piazzamento” culturale e ideologico di un cinema d’autore che si rivolgeva a un pubblico d’élite oggi tutto da ridefinire.

La presenza in concorso di un film come Le redoutable di Hazanavicius aveva, in questo, un valore teorico involontario. Hazanavicius viene dalla televisione “creativa” degli anni ’90, era specializzato in sketch parodistici, e in fondo su questa linea ha proseguito la propria produzione cinematografica. Il suo esito migliore al cinema sono, non a caso, le due parodie della serie OSS17 interpretate da Jean Dujardin. Messo davanti a Godard e al ’68, non può che affrontarlo come un fenomeno pop. Non nasconde la propria ammirazione verso il maestro, ma perché vede in lui un creatore di icone, un personaggio cool. I rossi, i bianchi, i blu della Chinoise, l’uso della musica, l’autoriflessività dello stile, l’irrompere della forza ontologica del reale, insomma tutto l’armamentario della modernità cinematografica, diventano un repertorio di trovate, quasi una serie di “effetti” quali si potrebbe trovarli pre-ordinati nei programmi di manipolazione digitale delle immagini.

In questo senso, c’è una certa continuità di fondo tra la visione di Hazanavicius e la linea che sembrava vincente al Festival, ossia quella che potremmo chiamare del “cinema chiuso”. Un cinema d’autore, ma soprattutto un cinema autoritario, predeterminato nei confronti dei personaggi e dello spettatore. C’è una perversa coerenza, ad esempio, tra la chiusura dello stile di Lanthimos, che intende “nobilitare” l’horror con le sue inquadrature composte e i lenti movimenti di macchina, e il suo esibito nichilismo, che è ben lontano dal coinvolgere se stesso, e se gioca sadicamente con lo spettatore lo fa in una dimensione, avrebbe detto Daney, pubblicitaria, nel senso di auto-promozionale. Film che sono spot di se stessi. Haneke, che per molti versi discende da questa genealogia di cinema “chiuso”, e che anzi nei primi film ostentava ludicamente il proprio potere di “mettitore in scena” (Funny Games), era riuscito però a sollevare questa visione a una sorta di nuova, decantata classicità, con esiti altissimi (Il nastro bianco). Ma con Happy End fa un passo indietro (già il titolo antifrastico è indicativo di una certa programmaticità), anche perché vuole farsi direttamente politico utilizzando una struttura chiusa da dramma borghese, e il risultato è una mera giustapposizione: i borghesi sono rodinianamente a Calais, presso la giungla, e il film non sa far meglio che portare di peso degli attori di colore.

Il cinema europeo sembra inscindibile da questa visione blindata, aprioristica, in cui il cinema ha una dimensione di teorema. Ma soprattutto, è come se la dimensione autoriale togliesse ogni spazio alla dialettica interna tra le immagini. Quando la “chiusura” del film era assicurata dal genere, dalla struttura economica, insomma dalla scorza comunicativa del film, ciò permetteva e anzi suscitava lotta sotterranea tra il senso e il racconto, tra la narrazione e la visibilità, insomma tra le mille forme di negoziazione. E lo stesso accadeva nei confronti delle censure, dell’ideologia degli autori, di tutti i fattori “esterni” incorporati nel testo del film. L’impressione è che però la figura dell’Autore funzioni, per così dire, come un Io ipertrofico che svolge anche le mansioni del super-Io. L’ideologia dei registi trova una saldatura troppo perfetta con la loro messa in scena, l’alleanza tra visione del mondo misantropa e anti-borghese (ma in realtà tutta interna a quel mondo) e sguardo, che fa pesare la propria posizione di “autore”, nobilitano l’appartenenza a un campo culturale, ma creano una situazione paradossale.

All’interno di questa scuola, ovviamente, ci sono riuscite più compatte, come uno dei migliori film del concorso di Cannes, Loveless di Andrej Zvyaginstev. E soprattutto, è come se visioni del mondo, in fondo autosufficienti, finissero col fare implodere, deragliare i film. Come se la mancanza di un polo dialettico creasse film che cercano di scappare da tutte le parti. Da qui gli esiti atipici, in cui a un certo punto la commedia borghese, algida e stilizzata, dopo un’ora e mezza diventa un melò squinternato che si confronta con le altre classi sociali (La Palma d’oro Ruben Ostlund con The Square); un potente affresco “miserabilista” sulla Russia di oggi diventa un apologo onirico sul potere che strizza l’occhio a Lynch (Loznitsa con A Gentle Creature); un thriller levigatissimo alla Highsmith-Chabrol infila una storia a scatole cinesi e diventa la parodia di se stesso (Ozon con L’amant double); una già risibile metafora politica con supereroe-migrante si attorciglia nei legacci della sceneggiatura e dei personaggi (Mundruczò con Jupiters’s Moon), e si potrebbe continuare.

Dall’altro lato, altrettanto limpida appare una seconda via, relativa soprattutto alla Francia. Resistono i figli primogeniti della nouvelle vague (L’Amant d’un jour di Philippe Garrel è stato uno dei più amati del concorso), o addirittura i superstiti come Agnes Varda, autrice di uno dei film (Visage Villages) più liberi e imprevedibili del festival. E sorprendente era anche il documentario di Raymond Depardon sugli ospedali psichiatrici (12 jours). Anzi Garrel, nell’affidarsi a un copione di Jean-Claude Carrière, tentava (forse per la prima volta) il gioco di nascondersi con la sceneggiatura, contraddetta e assecondata di volta in volta. Un gioco che, in fondo, in tutto il festival è riuscito solo a un maestro ottantatreenne, Roman Polanski, nel thriller di routine Based on a true story, scritto da Assayas, ma che è tutto un dialogo tra testo di partenza, regole del thriller, universo pregresso del regista e dello sceneggiatore.

Nei film del concorso, che obbediva sostanzialmente a logiche di potere interne al sistema del cinema francese, questa chiave non reggeva. Nel dialogo tra gioco sugli spazi e lavoro interno al biopic, il film di Doillon su Rodin naufraga, e più che alla Belle noiseuse di Rivette si approssima a certo softcore anni ’80 (i telefilm in costume della Série Rose). Ma il caso più affascinante è quello di Desplechin, che quasi simbolicamente ha fatto un film, Ismael’s Ghost, doppio, con una versione “sentimentale” e una “teorica”, più lunga di venti minuti. Una scelta quasi simbolica, come se le due anime che hanno sempre abitato il corpo del film ora non potessero più coabitare, dovessero scindersi schizofrenicamente. Come se la feconda ambiguità che ha attraversato la storia del cinema fosse giunta a un punto morto.

In questa divisione, che si sovrappone forse a una crisi delle poetiche, l’Italia in realtà offriva una via netta, riconoscibile. Fallimentari i tentativi di aggiornare o ibridare coi generi (Sicilian Ghost Story di Grassadonia, Fortunata di Castellitto), il  cinema italiano era rappresentato al meglio dai tre titoli alla Quinzaine des Réalisateurs, tutti di altissimo livello: A Ciambra di Jonas Carpignano, L’intrusa di Leonardo Di Costanzo e Cuori puri di Roberto De Paolis. Titoli che mostrano una impressionante rassomiglianza di sguardo e una vicinanza ad altri autori di questi anni, che li avvicina anche ad alcune tendenze del cinema d’autore internazionale. Una via in apparenza opposta a quella del cinema d’autore-autoritario, più strutturata secondo i modi del pedinamento, della struttura para-documentaria. Un cinema che rappresenta l’altra linea del cinema d’autore, dopo Rosetta dei Dardenne. Periferia, adolescenti, degrado, macchina a mano, eccetera. Eppure in questi film c’è una sorta di “mossa del cavallo” nella consapevolezza degli autori. Da un lato, la coscienza di utilizzare un armamentario retorico, un genere a tratti, e soprattutto la coscienza che questo genere è limitrofo al melodramma (del resto, ci spiegò tanti anni fa Bazin, del “demone del melodramma” i registi italiani non si liberano mai: tanto vale farci i conti, allora). Dall’altro, per arricchire il corpo dei film c’è la derivazione dalla straordinaria scuola italiana di cinema del reale degli ultimi decenni (e di cui, peraltro, Di Costanzo è stato uno creatori). Per intenderci: Zavattini è lontano, lontanissimo il cinema politico degli anni ’70.

Il modello, semmai, è per una volta Rossellini, infine riscoperto dal nostro nella sua complessità, come modello critico di lavoro sulle immagini in epoca scissa, in cui il reale è sfuggente e contemporaneamente le tecnologie consentono una grande libertà di confronto con esso. Un modello di libertà a cui i registi italiani aggiungono, diremmo, un senso di grande responsabilità nella messinscena, una pazienza quasi da laboratorio, nella consapevolezza che la nebbia che vela il nostro sguardo, fatta anche di gesti automatici e di immagini ricevute, può essere decostruita con estrema pazienza, mettendosi in ascolto del reale ma senza più la fiducia che esso parli da solo.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
S. Daney, Cinema, televisione, informazione, Edizioni e/o, Roma 1999.
R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 2006.

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