Lea Martelli alla sera si addormenta tardissimo perché va al cinema o a teatro a vedere i suoi attori, legge molti copioni, guarda i premontati dei «suoi» registi. Negli ingaggi non demorde mai, e come tutti i talent agent prende il 10% su ogni contratto firmato dai suoi clienti. Se non trova un compratore la colpa non è degli artisti, ma sua, oppure dei suoi colleghi, intermediari tra gli artisti e il mondo dello spettacolo le cui vicende sono al centro di Call My Agent – Italia, la nuova serie comedy prodotta da Palomar e Sky Studios, distribuita da Sky e disponibile su Now.

CMA sta per Call My Agent, ma anche per Claudio Maiorana Agency, la rinomatissima (e fittizia) agenzia di spettacolo romana nella quale lavorano i protagonisti. Un piccolo ammiccamento che già da subito tradisce la natura metatestuale della serie, il suo continuo gioco di specchi e sovrapposizioni con il nostro mondo. Adattamento dell’originale francese Chiami il mio agente (Dix pour Cent, 2015-presente), Call My Agent – Italia racconta le vicende di “addetti ai lavori” dell’industria audiovisiva nazionale, le cui logiche vengono smontate in un’attività di autoriflessione costante, tramite i meccanismi della comicità. A questo punto, è naturale il paragone con un’altra celebre serie italiana che fa tutto ciò: Boris (2007-presente). Call My Agent ha uno stile più pulito e curato di quest’ultima, il suo umorismo è meno incentrato su assurdità, cattiverie e cialtronaggini, mentre il punto di vista è ancora più laterale, lontano dai set. Tuttavia, ci sono anche molti punti in comune. Con sei puntate da un’ora, Call My Agent ci appare come una sorta di sitcom “allungata”, certo attraversata da diverse tensioni drammatiche, ma dove tutto si risolve in un’apprezzabilissima rivincita del comico: sia per il ruolo cruciale di “salvatore” dell’agenzia assunto in ultimo da Corrado Guzzanti, sia perché la comicità stessa è il carburante della narrazione.

Gli agenti sono i protagonisti di questa serie corale: hanno voci ben identificabili e silhouette inconfondibili, macchiette di una workplace sitcom e caratteri tipici di una fiction italiana. Vittorio (Michele Di Mauro) è uno squalo preciso e autoritario, Gabriele (Maurizio Lastrico) è idealista e confusionario, Lea (Sara Drago) è una tenace girlboss, Elvira (Marzia Ubaldi) è l’anziana saggia che fa da ponte con un passato glorioso. I loro uffici sono ricchi di dettagli che li definiscono — le foto di Elvira con le vecchie glorie del cinema, gli Adelphi di Lea e gli Einaudi di Gabriele — e attorno a loro si muovono collaboratori altrettanto caratterizzati, con i quali interagire in frenetici walk and talk nei corridoi. Nelle loro giornate cogliamo il senso del lavoro dell’agente che “non deve essere solo manager, ci deve tenere anche alle persone”, veniamo esposti (in maniera certamente semplificata) alle loro routine e pratiche culturali, assistiamo a momenti di scontro e di compromesso, nonché ad una costante attività interpretativa, dove una stessa azione può essere definita «scambio» o «ricatto» a seconda della circostanza.

Un processo autoironico, autoriflessivo, televisivo.

La serie è costellata di riferimenti all’attualità e al panorama mediale italiano, ma soprattutto la trama verticale di ogni puntata è dedicata a un attore o attrice — o a un regista, nel caso di Sorrentino — che recita nel ruolo di sé stesso o sé stessa. Il piacere comico deriva dunque dal vedere confermate le convinzioni diffuse sui vari performer, che si muovono tra auto-parodia e auto-celebrazione. Paola Cortellesi non devia dalla sua immagine pubblica di diva “quotidiana”, empatica e accessibile come solo una personalità nata e cresciuta nella televisione sa — anzi, può — essere. Non ci sorprendono nemmeno l’eclettismo e l’iperattività di Stefano Accorsi o lo snobismo geniale di Sorrentino, che nessuno ha il coraggio di contraddire quando propone una The Lady Pope con protagonista Ivana Spagna (in realtà, in questo caso, è tutto uno scherzo del regista, e forse sarebbe stato più esilarante vedere un Sorrentino veramente impazzito, anche se ciò non avrebbe giovato alla sua celebrazione).

Poi, se già in Boris si diceva che i grandi ruoli “ormai li fa tutti Favino”, talmente è bravo nella trasformazione, Call My Agent non devia da questa narrazione dominante, ma la rafforza mostrandoci un Favino entrato talmente tanto nella parte di Ernesto “Che” Guevara da non riuscire più a uscirne. L’attore però ci lascia anche con una sensazione agrodolce quando ammette, una volta “guarito”, che “non è così facile entrare e uscire dalle vite degli altri. E poi ne incontri una in cui ti piacerebbe restare. Perché ti sembra d’essere parte di qualcosa di più grande”. In effetti, con Pierfrancesco-Che non solo ridiamo, ma ragioniamo anche di grandi ideologie, di utopie, di capitalismo e di socialismo, o ancora, del socialismo di Craxi (interpretato da Favino in Hammamet, Amelio 2020) e di quello di Guevara. Per Lea sono due socialismi diversi, per lui invece “socialismo es socialismo”. Che succederà, allora, quando l’attore dovrà smettere i panni del rivoluzionario e vestire quelli Mario Draghi in una serie sull’alta finanza?

E avanti poi con altri grandi temi nell’agenda di oggi, intrecciati talmente tanto con i media che dobbiamo rassegnarci a interpretarli come grandi questioni di un’unica modernità mediatizzata. La diversity viene affrontata tramite il personaggio di Sofia (Kaze), la receptionist afro-italiana della CMA che inizia a fare l’attrice. La sua vicenda si muove tra bias dell’industria e razzismi latenti, chiama in causa concetti quali “rappresentazione”, “talento”, “merito”, “opportunità”. A tutto ciò si aggiunge la relazione sentimentale di Sofia con il suo agente Gabriele, che per quanto sincera presenta margini di ambiguità. La serie si muove dunque sul filo del #MeToo, ma si dimostra consapevole dei dibattiti e delle potenziali critiche che potrebbero arrivarle.

Chi meglio poi di Matilda De Angelis per affrontare la questione della polarizzazione online: “L’anno scorso per una foto coi brufoli sono diventata un’eroina, quest’anno per un cannolo sono una nazista”. L’agenzia deve infatti gestire la shitstorm scatenata da una battuta dell’attrice su Instagram. Matilda dovrebbe fare un video di scuse? O è meglio non fare nulla per non aggravare la situazione? E se si escogitasse un piano per dire che era tutto programmato a fin di bene? Matilda sceglie invece di tuffarsi fino in fondo nel processo auto-ironico (a differenza di Sorrentino): alla fine perde le staffe durante una diretta Instagram e si lascia andare ad un’adorabile cascata di volgarità e insulti nei confronti degli utenti.

Un tessuto connettivo, una pezza di Fanelli.

Matilda, come Paola, Pierfrancesco e Stefano, non a caso tutti indicati nel titolo della puntata con il loro nome proprio, perdono ogni aura di sacralità, in una logica che ha ancora senso chiamare televisiva, oltre che comica; gli attori diventano figure quotidiane, ordinarie, banalizzate nella loro domesticità e vita privata, nei loro difetti e nelle loro malinconie. Questi “divi” ci chiedono, insomma, di non essere presi troppo sul serio, assumendo in questo le caratteristiche del medium che li ospita, del quale l’elemento comico costituisce «il registro profondo, possiamo dire il tessuto connettivo» (Ortoleva 2004, p. 46).

Tutto ciò lo vediamo condensarsi in Corrado Guzzanti, comico televisivo che si sottopone ad una tragicomica riflessione su sé stesso, tanto divertente quanto patetica. “Corrà, perché non me rispondi al telefono?” gli chiede Elvira, la sua agente. “Quando mi chiami tendi a farmi delle proposte di lavoro” le risponde un Guzzanti che ci aspettiamo, sfuggente e sempre con la battuta pronta, la cui presenza televisiva è stata in effetti piuttosto rarefatta negli ultimi anni, almeno fino a un recentissimo exploit. Il Guzzanti della serie, così come quello reale (si presume), spinto un po’ da motivazioni ideali e un po’ da necessità economiche, realizza che una tv brutta con lui dentro è pur sempre meglio di una tv brutta e basta.

C’è poi un altro personaggio ricorrente, il più sopra le righe di tutti, che personifica la continuità dell’elemento comico nella serie facendo da contrappunto costante alle vicende principali. È Luana Pericoli, interpretata da Emanuela Fanelli. Luana dovrebbe essere un’attrice, ma non c’entra molto con la CMA, è una maneggiona e una mitomane che millanta conoscenze ai piani alti dello showbusiness. Sembra una maschera uscita dalla commedia all’italiana, che fonde questa tradizione assieme ad una più comico-televisiva e alla sua spiccata vocazione all’auto-riflessività. Luana Pericoli porta infatti alle estreme conseguenze la comic persona che Fanelli ha costruito in Una Pezza di Lundini (Raidue, 2020-presente), quella dell’attrice di teatro che si dà troppe arie e che giustappone l’eccessiva considerazione che ha di sé alla scarsa considerazione che le arriva dagli altri. Però, con un ribaltamento di destini reso credibile solo dal gioco comico, Fanelli e Guzzanti danno vita ad un’ultima puntata che ha i tratti di una grande farsa, che risolve tutte le sottotrame, salva i destini della CMA, e svela il «tessuto connettivo» dell’intera serie.

Call My Agent – Italia è dunque una commedia brillante che apre uno squarcio su un universo professionale poco conosciuto, e che grazie alla comicità attiva un senso di familiarità che parte dai protagonisti “immaginari” della serie (gli agenti) e che arriva a quelli “reali” (le celebrità). Le vite straordinarie di questi operatori-mediatori culturali iniziano a sembrarci vite ordinarie con le quali possiamo instaurare un contatto. In questo senso, celebrità e agenti diventano “intermediari” fino in fondo: tramite loro ci riconosciamo nella nostra cultura audiovisiva, nelle sue celebrità e nel nostro immaginario nazionalpopolare, finendo, di conseguenza, per guardarci un po’ tutti allo specchio, o meglio, allo schermo.

Riferimenti bibliografici
F-Actor. Forme dell’attorialità mediale contemporanea (Prin 2017). 
L. Barra, M. Scaglioni, a cura di, Tutta un’altra fiction. La serialità pay televisiva in Italia e nel mondo. Il modello Sky, Carocci, Roma 2013.
L. Barra, La sitcom: genere, evoluzione, prospettive. Carocci, Roma 2020.
P. Ortoleva, Divismo televisivo, in Enciclopedia italiana. Aggiornamenti 2000, Treccani, Roma 2000.
P. Ortoleva, Il comico del flusso, in Una tivù da ridere: cinquant’anni di satira nella/sulla televisione italiana, a cura di D. Aloi, G. P. Caprettini, A. Gedda, Ananke, Torino 2004.

Call My Agent – Italia. Ideatore: Fanny Herrero; interpreti: Michele Di Mauro, Sara Drago, Maurizio Lastrico, Marzia Ubaldi, Sara Lazzaro, Francesco Russo; produzione: Palomar, Sky Studios; origine: Italia; anno: 2023-in produzione.

Tags     autoironia, Boris, Sky, umorismo
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