Nello chalet immerso nella natura dove i due papà Andrew (Ben Aldrige) ed Eric (Jonathan Groff) trascorrono insieme alla figlioletta Wen (Kristen Cui) una piacevole vacanza, l’irruzione di alcuni estranei trasforma rapidamente i tratti edenici del luogo in un inferno senza scampo. O meglio, quasi senza scampo. Perché se è vero che, come affermano i quattro “profeti” dell’Apocalisse, l’irreversibile catastrofe è ormai imminente, una via d’uscita potrà esserci solo e soltanto se la famiglia presa in ostaggio sceglierà di offrire in sacrificio uno dei tre, salvando con un gesto disperato l’umanità intera.

Bussano alla porta (2023), significativa riscrittura del romanzo La casa alla fine del mondo (2018) e ultimo lavoro di M. Night Shyamalan, rende esplicito, sin da questo rapido compendio, una certa volontà di sovvertimento dei codici legati al filone di genere cui il film dà a intendere di inserirsi. È infatti sotto il peso di un atroce dilemma morale che si situano i principali gangli elaborativi del film e scivolano in secondo piano le suggestioni figurative da home invasion. Gli stessi sequestratori – persone “normali” tormentate da terribili visioni di morte – sono infatti i portavoce di un’umanità disperata che azzera la dicotomia buoni/cattivi e dischiude un’orizzonte di riflessione politica e, al fondo, bioestetica (Montani 2007), che implica un preciso giudizio sullo statuto delle immagini contemporanee. È questa la prospettiva che inizia a dischiudersi nel momento in cui i quattro – non più profeti ma “cavalieri” dell’Apocalisse – sono costretti, ad ogni rifiuto della famiglia, ad autosacrificarsi, scatenando così ogni volta una piaga divina: una devastante inondazione, una pandemia mortale, il simultaneo precipitare degli aerei in volo per il mondo.

Tuttavia le terribili conseguenze dei cataclismi sono testimoniate agli ostaggi – estremo tentativo di convincimento – solo attraverso i TG, immagini di una catastrofe la cui veridicità viene espressamente messa in questione. Si tratta dunque del dispiegamento di una rilevante direttrice autoriflessiva del film che – incrociando un movimento discorsivo che chiama in causa il problema di una post-verità complottista in stile Qanon (i quattro visionari si sono conosciuti su un blog online) – tematizza la questione inerente a una forma di vita che, come ha scritto Dinoi, «in un’epoca che sembra dominata dall’ipertrofia visiva, sarebbe in qualche modo “addestrat[a]” a fare esercizio di dubbio anche in relazione a quelle immagini che dichiarano la propria “pretesa referenziale”, le immagini che si presentano come eminentemente informative» (Dinoi 2008, p. 20).

Al di là dei legittimi dubbi espressi dagli ostaggi, Shyamalan sembra suggerire attraverso la stessa sovraesposizione dello sguardo (il movimento di macchina che indugia sulla dicitura «prerecorded» apposta al servizio televisivo) e del suo stesso corpo (consegnato, nel consueto cameo del regista, alle ambiguità di un’immagine pubblicitaria che pretende di vendere «pollo fritto spettacolare e meno sensi di colpa») una riflessione sulla corruzione dell’immagine del mondo perduta nel mondo delle immagini, dove alla scomparsa della prestazione testimoniale corrisponde un’incapacità di agire che può rivelarsi esiziale. È quindi nel cortocircuito attivato tra il suo stesso statuto di genere (la produzione catastrofista hollywoodiana cui il film nominalmente appartiene e che è complice – come sottolinea Dinoi nel suo testo – dello scadimento referenziale dell’immagine) e le sue più profonde articolazioni elaborative che Bussano alla porta sembrerebbe rivelare un più autentico posizionamento politico.

Come ha osservato Mark Fisher in apertura di Realismo capitalista, la nostra epoca si caratterizzerebbe per la «sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa» (Fisher 2018, p. 26): sembrerebbe oggi «più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» (ibid). Potremmo dunque in tal senso, a ragione, considerare il film di Shyamalan come la configurazione di un simile esercizio immaginativo laddove è proprio il disagio della coppia nella scelta di sacrificare la propria felicità per il fine collettivo (più volte ribadita nel film) a rivelarsi con una certa rilevanza all’interno del racconto.

Le questioni della miopia edonistica e della difficoltà di scegliere (“c’è sempre una scelta”, ci ricorda uno dei primi dialoghi tra ostaggi e sequestratori) ispirano dunque la fondamentale prospettiva politica dell’opera, che relativizza così l’apparente logica reazionaria dello spunto narrativo (stiamo comunque assistendo al racconto di un Dio che chiede a una coppia omogenitoriale di sacrificarsi), ponendolo al contempo al di là di ogni facile retorica “inclusiva” (anche se, come dice Wen nelle battute iniziali, non ci sono mai due papà su Disney Channel). In tal senso, il dato dell’omosessualità dei protagonisti viene elaborato al fine di rimarcare un certo sentimento di iniquità del voto sacrificale, a fronte di una agognata serenità familiare che (come suggeriscono i diversi flashback, uniche lacerazioni dello spazio-tempo claustrofobico dell’azione) sembrerebbe in qualche modo legittimata dalle vessazioni a lungo subite dalla coppia (siamo ancora una volta “presi di mira” afferma più volte Andrew).

E tuttavia, la stessa scelta di compiere il sacrificio pare non poter comunque affrancarsi da una prospettiva irrimediabilmente individualistica. Se la morte dei quattro profeti rappresenta infatti, nelle parole di Eric, la scomparsa di altrettante caratteristiche di una certa essenza – morale, sociale, pulsionale – dell’umano, il sacrificio in grado di salvare il residuo biologico della nostra specie può compiersi solo per egoismo: dare un futuro alla piccola Wen, garantirle una “normalità” perfettamente integrata alle aspettative del presente (un futuro da donna in carriera a bordo di un’auto sportiva, come ci viene mostrato nell’immagine mentale che precede la morte di Eric).

Ma al di là dei suoi sviluppi meramente diegetici – in tal senso, sì, in qualche modo reazionari –, è ancora tra le pieghe metatestuali del film che si rivela il senso profondo di una rappresentazione dell’umano la cui – supposta – essenza è a rischio quanto la propria stessa esistenza. Di contro alla riflessione sulla chiusura autoreferenziale di un audiovisivo che non è più in grado di dir nulla sul mondo, emerge nel film la forza di un reale che non smette di abitare le immagini. È precisamente il nostro mondo – quello della catastrofe ormai avviata – a farsi sentire nel fuori campo, a premere sui primissimi piani che saturano i campo/controcampo di certi dialoghi e sulle figure recise da asimmetrici piani americani, come nell’immagine di una violenza quasi sempre soltanto evocata e relegata al di là di un margine che guarda al di qua dello schermo.

Così, nel finale, è possibile rilevare la consistenza di uno spazio critico che pare tenere insieme le precipue elaborazioni del film, costruendo, attraverso una specifica dialettica che si instaura nella colonna sonora, una riflessione attorno allo statuto dell’immagine e a una catastrofe che direttamente ci riguarda. Scampata l’Apocalisse, gli ultimi superstiti Andrew e Wen salgono in auto, pronti a riconsegnarsi alla vita. Il padre accende il veicolo e improvvisamente, alla radio, parte Boogie Shoes dei KC and the Sunshine Band, un pezzo che avevamo già sentito in uno dei flashback, emblema di una felicità familiare ormai trascorsa. Andrew spegne lo stereo, l’allegria di quel brano è ora del tutto inappropriata. Solo qualche istante ed è Wen a rilanciare la musica per poi spegnere di nuovo. La famiglia si è dissolta, ma l’umanità è salva: su che toni concludere il film? Ancora un paio di secondi, ed è il papà a prendere una decisione. Boogie Shoes riparte nuovamente, una volta per tutte, mentre lo sguardo tra i due personaggi si fa segno di un possibile ricominciamento. E tuttavia, mentre il pick-up si allontana è infine una malinconica musica extradiegetica a sostituirsi alla prima. È ora il cineasta a riservare per sé l’ultima parola, escludendo la possibilità di ogni consolatorio lieto fine e configurando, nel gioco della colonna musicale, uno straniante movimento di pensiero che fuoriesce dal flusso diegetico e assume i toni seri e sinistri di un monito.

Il cinema, come suggeriva Jean-Luc Godard, «da Il Grande Dittatore a La regola del gioco, aveva annunciato tutte le tragedie» (Godard 1998, p. 336) e tuttavia «gli si è impedito di svolgere il suo ruolo e lo si è ridotto a essere un giocattolo» (ivi, p. 335). Oltre un portato spettacolare di facciata, Shyamalan sembra proprio voler lavorare attorno a simili virtualità visionarie del dispositivo, configurando la propria opera come una sorta di avvertimento nei confronti di un reale – il nostro – di pandemie già in atto e di annunciati disastri ambientali. Un ennesimo richiamo delle forme filmiche al nostro mondo che non possiamo permetterci di disattendere.

Riferimenti bibliografici
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.
J.-L. Godard, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard vol. II, a cura di A. Bergala, Cahiers du cinéma, Paris 1998.
P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.

Bussano alla porta. Regia: M. Night Shyamalan; sceneggiatura: M. Night Shyamalan, Steve Desmond, Michael Sherman; fotografia: Jarin Blaschke, Lowell A. Meyer; montaggio: Noemi Katharina Preiswerk; interpreti: Jonathan Groff, Dave Bautista, Rupert Grint, Nikki Amuka-Bird, Ben Aldridge, Abby Quinn, Kristen Cui; produzione: Blinding Edge Pictures, Wishbone Entertainment Inc.; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Cina; durata: 100′; anno: 2023.

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