Sunburst fingers you raise
One last sigh of farewell, goodbye.
Roxy Music, Sunset
Constatando la predisposizione desolante dell’uomo alla guerra, nel 1951 Samuel Fuller realizza Corea in fiamme e, ponendo fine ai titoli di coda senza ricorrere alla chiusa usuale (“The End”) per impiegarne una ben più mesta (“There is no end to this story”), sembra presagire il destino della penisola nei decenni a venire. In Burning confluiscono le vicende di Jong-su e Hae-mi, cresciuti al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud, nella cittadina di Paju, una zona di campagna in cui proliferano le serre che dialoga con il loro passato familiare e, più in generale, con il grande rimosso storico del conflitto, onnipresente nel subconscio nazionale.
Situata entro la zona demilitarizzata costituita in seguito all’armistizio di Panmunjeom del 27 luglio 1953, Paju è ancora oggi una linea d’ombra, il nucleo incandescente che rammenta di un conflitto tecnicamente mai conclusosi. Presentato a Cannes nel 2018, a distanza di otto anni dal suo ultimo film che sempre alla Croisette si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura (Poetry), Burning segna un ritorno ai temi caratterizzanti del cinema di Lee Chang-dong e altresì un decisivo distanziamento dalla forma melodrammatica che il cineasta ha sondato e saturato a partire dall’esordio Green Fish (1997).
Jong-su è un aspirante scrittore, figlio di un contadino e di una madre che non vede da sedici anni. Hae-mi è stata sua compagna di scuola, adesso impiegata come ragazza immagine in occasione di fiere ed eventi, una fatina evanescente che non ha mai indossato un orologio, appassionata praticante di mimo – dell’arte di far dimenticare che la cosa non sia presente, più che del farla immaginare qui e ora – e che sembra ricomparire nella vita di Jong-su per puro caso. Lei scompare, riappare e, dopo aver iniziato a frequentare Ben (uno dei tanti “Gatsby coreani” di cui non si conosce la fonte delle ingenti ricchezze), non ricompare più.
Ancor prima che un adattamento di Granai incendiati, racconto di Haruki Murakami, Burning è un’opera sospesa, trasognata, catatonica, ma anche inquieta, senza posa. Significativo che nel titolo stesso del film si perda ogni coordinata: ciò che resta è il solo e ininterrotto “bruciare”, “consumarsi”. Come le serre incendiate da Ben scompaiono nel giro di quindici minuti diventando cenere al vento, materia che rientra in circolo e colma nuove distanze, così la rabbia e l’insoddisfazione di Jong-su ardono come una fiaccola olimpica. La frustrazione rabbiosa che anima Jong-su è sempre sul punto di confluire verso uno specifico aspetto della sua vita, ma puntualmente vira verso nuovi lidi: l’ossessione erotica nei confronti di Hae-mi che, in seguito al suo viaggio in Africa, si riduce a un vacuo onanismo; la rivalità amorosa con l’aitante Ben; l’insoddisfazione per la situazione lavorativa precaria; lo stallo creativo che gli rende difficile scrivere altro se non una lettera burocratica che dovrebbe scagionare il padre violento.
Muovendosi entro il genere thriller e infiammandone i cordami che ne sorreggono l’impalcatura, Lee Chang-dong plasma una nuova forma di cinema contemplativo che si aggrappa alle narrazioni “epiche” – cui, da grande narratore, sia delle myricae sia della “grande storia” (il massacro di Gwangju in Peppermint Candy), non ha mai rinunciato – dei più intimi moti umani per svelarne l’atavico rimosso: ancor prima che Murakami, Faulkner insomma, lo scrittore preferito di Jong-su. Il furore e lo sguardo allucinato dei personaggi dello scrittore americano – anch’egli autore di un racconto intitolato Barn Burning – abitano il film e sembrano impedire che la narrazione agile e vaporosa di Murakami possa deviare verso universi paralleli, buchi d’irrealtà che esistono per via di una profonda connessione a una “falla di reale” ancora visibile, per quanto insabbiata dalla cattiva coscienza umana o dai traumi mai sanati che riaffiorano inaspettati (La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Dance Dance Dance, Kafka sulla spiaggia, 1Q84).
Nel cinema di Lee, invece, il reale è una costellazione di buchi, una sequenza cifrata esistente a prescindere dal fatto che qualcuno sia in grado di interpretarla. Ed è proprio la corazza del reale contro cui i personaggi collidono a produrre una falla di irrealtà che travia il soggetto, il quale si accanisce contro la superficie inscalfibile della realtà. Il soggetto non oscilla tra due universi, ma vaga nella “foresta di simboli” di un reale inamovibile, pachidermico.
Inquadrato negli istanti in cui la luce opera una transizione – dal tramonto alla sera, dalla notte all’alba – e i colori della natura rimano con quelli della fiamma, Jong-su diventa una sagoma o, come nell’inquadratura iniziale, è occultato da un muro, mentre soltanto il fumo della sua sigaretta sporge a favore di macchina. Allo stesso modo, una simile palette cromatica, e il trascolorare di una tinta verso un’altra all’approssimarsi dell’ora blu, caratterizza la grandiosa sequenza centrale della danza dei Boscimani attraverso cui la “Little Hunger” (fame fisiologica) si trasforma in “Great Hunger” (fame di vita). Hae-mi inizia a danzare e poi a denudarsi, mentre il brano di Miles Davis che accompagna i titoli di testa di Ascensore per il patibolo (1958) si propaga nell’aria, come un controcanto ai suoni della natura – i cinguettii e i muggiti come basso continuo. Il vento stormisce tra le foglie avvolgendo l’intera scena e il corpo della ragazza si muove dapprima sul posto per sgomitare poi verso il cielo, quasi a dialogare verticalmente con il pennone che demarca il suolo sudcoreano.
Cessata la danza, non resta che la chioma di un albero a ostruire la visione: il nord inaccessibile; il futuro, che come il tempo dell’infanzia, è irraggiungibile; l’area dove sorge la serra che Ben brucerà e che per Jong-su è impossibile notare perché “ciò che è troppo vicino sfugge alla percezione”. I refoli di vento accompagnano così Hae-mi fuori scena. A restare saranno soltanto le parole – poche quelle dette o scritte, molte quelle taciute – di Jong-su, da quel momento sempre più incapace di afferrare gli spazi e quindi di viverli, sempre più osservatore in preda a un blocco creativo: soggetto patente e forse mai scrivente.
Lo spettatore, come il lettore di Faulkner, si sente spesso escluso dal flusso degli eventi, e parimenti Jong-su, come Benjy de L’urlo e il furore, pare escluso anche da se stesso. Come in Faulkner «il linguaggio ritorna dunque incessantemente a questo gesto fuori dal tempo, accumulando disperatamente aggettivi e avverbi nel tentativo di evocare dall’esterno quella che è quasi una gestalt impenetrabile a sé, che non può più essere costruita dal movimento delle frasi» (Jameson 1991, p. 133). Paju assume i tratti della Yoknapatawpha faulkneriana, di un luogo immaginario che si fa carico di riprodurre un intero mondo, dove la lentezza e l’indolenza del Mississippi polveroso si raggrumano attorno alla Joint Security Area.
È altresì possibile che la percezione allucinatoria di Jong-su per dispiegarsi abbia bisogno di invadere altri soggetti e, deleuzianamente, divenire-personaggio. La coppia di inquadrature in auto (il prelievo in aeroporto e il rogo finale) che mostra Ben relegato nel retropiano mentre Jong-su, nell’antepiano, “fa da guida”, potrebbe così suggerire la sostanziale identità dei due.
Ogni inquadratura è un terreno di sovrapposizioni che generano scarti, zone di indistinzione al cui incrocio si può “sentire il battito risuonare fino alle ossa”. In tal senso, Boil, il gatto di cui dovrebbe prendersi cura Jong-su mentre Hae-mi è in viaggio, si fa portatore di istanze paradossali. Come il gatto di Schrödinger (e, per certi versi, di quello carrolliano del Cheshire), Boil – e con esso tutto ciò che è raccontato e/o mostrato – può contemporaneamente essere vivo e morto, affamato e inappetente, visibile e invisibile, vicino e sideralmente lontano, vero e falso. Hae-mi è davvero caduta in un pozzo da bambina? Adesso è scomparsa o è forse stata uccisa? Potrebbe essere Ben il responsabile? Boil è il gatto randagio senza nome (perché “è incredibilmente difficile” trovarne uno) accudito da Ben? Le domande e le risposte potrebbero moltiplicarsi all’infinito: il “mondo è un enigma” e il cinema è qui per inscenarne il mistero.
Riferimenti bibliografici
W. Faulkner, L’urlo e il furore, Einaudi, Torino 2014.
Id., Selected Short Stories, Modern Library, New York 1993.
F. Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, London-New York 1991.
H. Murakami, L’elefante scomparso e altri racconti, Einaudi, Torino 2009.