È sempre rilevante, o almeno lo è per me, quando, nel quadro della letteratura italiana contemporanea sempre più ingombra di trame (spesso trite) e dell’atteggiamento degli scrittori per cui solo le trame contano, arriva un romanzo di Omar Di Monopoli, tra i più visionari autori italiani, ma visionario nel senso dell’appropriazione e manipolazione della sintassi, di un’anamorfosi che riguarda non tanto le immagini che la scrittura evoca quanto la lingua, anzi, più propriamente, la struttura del periodo. Quella stessa lingua che per lo più, nel tentativo di offrire una storia quanto più fruibile, consumabile da parte del lettore, nella maggior parte degli scrittori italiani (ma la tendenza, la paratassi d’origine anglofona, è globale) si presenta piana, anodina, a volte sciatta: pensieri e scorci organizzati in frasi stringate che dovrebbero avere il pregio della chiarezza istantanea, eclatante, suggerire sensi nascosti dietro cose e atti e invece appaiono semplicemente come il segno della banalità del dire, di un dettato privo di talento e ispirazione, di un discorso tutto spiegato, che non ha nulla da dire, da svelare.

Di Di Monopoli invece tutto si può dire – di certi picchi in cui, per amore della parola, la forma si fa calligrafismo; di una stonatura, certo voluta ma secondo me poco congruente con l’afflato originario, con l’accensione armonica prosodica, stonatura tra il lessico desueto e quello gergale; di un dialetto che a volte irrompe negli antefatti rendendo stopposa, faticosa la pagina; di storie abbastanza omogenee tra un libro e l’altro, forse troppo simili tra loro, western in salsa tarantina, salentina – tranne che usi la lingua in modo corrivo e utilitario, il cui unico scopo sia quello cioè di erigere una storia, nonostante in effetti le sue narrazioni abbiano tutti i crismi del “genere”, per cui ad esempio Nella perfida terra di Dio (2017), forse il suo romanzo migliore, pare venga trasposto in un fumetto edito da Bonelli. Piuttosto l’autore pugliese è corifeo dello stile, uno dei pochi rimasti in Italia ormai preda degli americanismi; fautore del “come” prima ancora che del “cosa” dire, e per lo più il “cosa” è una nota ambientale, atmosferica: una manipolazione, orchestrazione lessicale, insomma una sintassi, per cui le cose interagiscono strettamente tra loro delineando il mondo in quanto metafora o similitudine.

Certo questo procedimento sacrifica un po’ la psicologia, come è evidente anche nell’ultimo Brucia l’aria (Feltrinelli), ma i paesaggi in cui si muovono i personaggi ne acquistano in termini di motilità, sembrano come animarsi, rutilare, involarsi tra lo schioccare di lingua, come pennellate di un dipinto proto-espressionista in cui le sagome si saturino e i contorni si trasformino, si fondano con lo sfondo. «[…] Superno, a ponente, il carapace dentellato della città rutilava ancora tra le vibranti foschie della notte che il sorgere del sole faticava a dissipare; dietro di esso, rarefatte, le ciminiere conoidali dell’impianto siderurgico striavano la volta del cielo di velenose spore; poi la vastità della campagna che si sgomitolava dalle falde del Creato immillandosi per chilometri tra le doline di macchione» (Di Monopoli 2021). O «fuori imperava la notte e i latrati dei randagi erano rintocchi lontani che battevano le tre eppoi tacevano. Il frego delle luci pitocche delle abitazioni di Languore si stagliava come una colata di stelle morte di fronte allo spiazzo della stazione di servizio» (ivi). Vige un’ipotassi controllata che è la struttura alla base delle corrispondenze tra le cose orchestrate, sonanti, colanti di luce: così gli spazi intorno a Languore si dilatano con l’ampliarsi della proposizione, del periodo, e dilatandosi rilasciano grumi di colore e di materiale sonoro sbavanti, trasfiguranti, molto spesso tramonti (o albe), quei momenti topici in cui le cose dialogano attraverso gli screzi atmosferici.

Il transito, il passaggio che porta dalla figurazione alla trasfigurazione, è dalla normale morfologia della frase (che è mimesi dell’orografia del mondo) all’anamorfosi del tropo, di qualche tipo di tropo (invenzione e svelamento delle corrispondenze segrete che s’instaurano tra gli scorci): similitudini e metafore (perfettamente riconoscibili, decifrabili), mai le associazioni astruse dell’analogia. E allora frasi si stagliano nella memoria, tornite, si direbbe esatte come epigrafi, anche a prescindere da quello che significano – e, si badi, significano in una soffusa stratificazione di senso – e per via di come suonano, partendo dal presupposto che il suono è la materia, la materialità delle parole. Ad esempio «il frego delle luci pitocche», che intesse un rapporto allitterante con i «rintocchi lontani», è già formula a sé, che si porta a mente come certe frasi di Gadda, di Manganelli, di Arpino: è codice, giaculatoria appagata dei propri presupposti fonici, cioè dei propri significanti, della propria immagine acustica pur sgranando solide, ossificate interpretazioni; è formula di quel sortilegio che è la scrittura tratta fuori dalla comunicazione corriva.

In effetti è questo che si deve pretendere dalla letteratura: il letterario non il mimetico, quella che Novalis chiama «favola»: la mitopoiesi inscritta nel magma della lingua, anzi anche solo nella possibilità di proferire parola; che attende di esserne tratta fuori e raffreddata in una forma, nello schiocco di volute sintattiche. Che la letteratura dunque sia letteraria, materiale, cioè sonora, laddove il suono è l’intima, solida sostanza delle cose. Al principio di Brucia l’aria (ma il discorso vale per tutto Di Monopoli) c’è una precisa scelta lessicale: in questo senso, citando Contini, il post-grammaticale – che ora si può intendere come il complesso lemmatico arcaico, regionalistico, strettamente letterario oltre che specialistico, di faune e flore – si interpola al grammaticale, al vocabolario d’uso, poi al dialetto e al gergo pseudo-giovanilistico. Da lì questo materiale composito viene orchestrato dalla sintassi concatenata che delinea morfologie o, più spesso, anamorfosi, cioè il mondo come mostro, organismo in movimento, tropo.

Vige un gusto tanto spinto per la parola desueta da sfiorare a tratti lo scherzo, la cialtroneria: finzione che, c’è da supporre, Di Monopoli assume divertito e che viene perfezionata da certa gergalità a delineare personaggi grossolani quanto spietati come Canzirru, a «sfancularlo una volta per tutte» (ivi). O appunto il lessico specialistico relativo all’ecosistema mediterraneo: una trafila di «sasselli», «cutrettole», «garighe» che innestate sull’ipotassi di base contribuiscono a materiare il dettato. Ma è nei momenti riflessivi, rapsodici – che sono quelli più tipici di Di Monopoli – si direbbe anche languidi (non a caso il paese nei pressi di Taranto in cui si svolgono le vicende si chiama Languore) che questa sostanza intima e concreta delle cose emerge tra eco e riflessi, come nella splendida pagina in cui si rievoca l’amore giovanile tra Rocco e Nunzia, scorribande in motocicletta, la loro libertà pulsante in una rapsodia estiva, stesi su un tetto con «le loro carni braccate dal desiderio», «a rimirare lo sbrodolarsi delle comete nel cielo antelucano» (ivi).

Omar Di Monopoli, Brucia l’aria, Feltrinelli, Milano 2021.

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