Ve lo ricordate Il caimano? Il film di Nanni Moretti si concludeva con un potente politico populista, corrotto e senza scrupoli che, pur di sottrarsi alla giustizia, aizzava una folla violenta contro i giudici rei, a suo avviso, di perseguitarlo ingiustamente. Il 6 gennaio 2021 abbiamo scoperto qual è la vera nazionalità del “Caimano”: statunitense. In un’operazione che ha tutti gli elementi dell’iperrealismo, Donald Trump ha orchestrato e ottenuto ciò che fino a ieri era inimmaginabile, un assalto “popolare” violento al Parlamento.
Se questo era un esperimento volto a testare il livello di fiducia, obbedienza e rabbia presenti in una parte delle sue “truppe popolari”, bisogna ammettere che il test è perfettamente riuscito. In nome della “vittoria rubata”, evocata ininterrottamente da Trump, migliaia di supporter del Presidente uscente (circa ventimila i presenti al discorso di Trump alla Casa Bianca e circa duemila quelli che sono poi effettivamente entrati nell’edificio del Parlamento) hanno portato il rifiuto violento delle regole, dei valori e delle procedure democratiche dentro il cuore simbolico di ogni sistema democratico. Poiché il fatto è qualcosa di inaudito occorre come prima cosa domandarsi chi erano questi autoproclamatisi “patrioti” e “ribelli” che hanno osato fare un gesto che deturperà per sempre il volto dell’America democratica.
Le indagini che si stanno svolgendo ci mostrano una composizione economico-sociale piuttosto variegata. La folla rabbiosa che ha devastato The Capitol era composta da soggetti senza né arte né parte (come l’oramai famoso “sciamano italiano” Jake Angeli), ma anche da lavoratori dell’industria edilizia, da parlamentari statali repubblicani come da giovani esponenti della upper class newyorkese, da ex militari, così come da due figli (conservatori) di un giudice della Corte Suprema. È difficile quindi intravedere nettamente in questa folla la sagoma dei «perdenti della globalizzazione» (Kriesi 2012) così spesso evocata per spiegare la vittoria di Trump del 2016. Ciò che tiene insieme e anima queste persone è che sono tutti supporter fanatici di Trump. Questa è considerazione che pare ovvia, ma dire che queste persone sono prima di tutto dei fanatici significa che l’identificazione con il leader è l’elemento chiave dell’identità collettiva che questa folla esprime.
Una dedizione totale a Donald Trump e alla sua causa è il principale motivo che ha mosso queste persone, portandole dalle loro case sparse un po’ in tutta l’America a Washington. Il presidente uscente ha coinvolto nel suo culto abnorme della personalità (sul tema dei tratti psicologici problematici di Trump si veda il documentario Unfit di Dan Parland del 2020) un numero incredibilmente alto di persone che, come i seguaci di una vera e propria setta, sono pronti a seguire il leader fino alle estreme conseguenze. In realtà per molti di essi non si tratta tanto e solo di “seguire” il leader, quanto invece di metterne in pratica quei “reali desideri e fini” che Trump non può esplicitare fino in fondo a causa del suo ruolo istituzionale. Si entra qui anche nel campo della interpretazione esoterica dei messaggi di Trump, “arte” assolutamente centrale nella nascita e diffusione del movimento complottista di Qanon, le cui “insegne” apparivano copiose insieme ai cappellini rossi e alle bandiere stars and stripes. È quindi una ipotesi credibile quella che individua una parte consistente della folla rancorosa giunta a Capitol Hill con i seguaci di Trump che si sono maggiormente radicalizzati nei meandri comunicativi delle reti complottiste come Qanon (Giraudi 2020).
Definire i duemila supporter di Trump che hanno fatto irruzione nel Parlamento dei fanatici ci permette, inoltre, di mettere in evidenza non solo il legame psicologico totalizzante ed estremo che lega il leader ai suoi seguaci, ma anche la cultura politica non democratica e reazionaria che queste persone condividono. È appena il caso di ricordare, infatti, come proprio il termine “fanatico”, o meglio la sua conversione di segno da aggettivo peggiorativo a tratto della personalità assolutamente auspicabile e necessario è stato individuato da Victor Klemperer (nel suo capolavoro LTI. La lingua del Terzo Reich, 1947) come uno dei cardini dello sviluppo del nazismo. La dedizione al leader e alla causa sopra ogni cosa e oltre ogni senso di realtà sono il segno distintivo dei seguaci fanatici, e i leader autoritari hanno un assoluto bisogno di seguaci fanatici.
Il fanatismo come tratto essenziale dell’agire politico ci riporta quindi direttamente all’epoca delle ideologie totalitarie e non è certo un caso che in quella folla fossero presenti moltissimi simboli dell’estrema destra americana che si rifà in maniera esplicita al nazismo e al suprematismo bianco “stile Ku Klux Klan”. Un atteggiamento fanatico è in contrasto irriducibile con ogni forma di democrazia, con ogni idea di pluralismo inteso come riconoscimento della legittima aspirazione al potere anche di altri soggetti e con l’idea di potere e di governo resi stabili dalle procedure e dalle istituzioni piuttosto che dai contenuti specifici (ideologici) del comando.
Il fanatismo è invece l’unico atteggiamento, l’unico tratto caratteriale, che può spiegare atti che altrimenti paiono assurdi e inconcepibili, quali l’erezione di patiboli nell’area antistante il Parlamento e il tentativo di “catturare” la nemica per antonomasia di Trump e del Partito Repubblicano (Nancy Pelosi) e il “traditore” (Mike Pence), reo di non avere avuto il coraggio di ribaltare l’esito del voto popolare e di avere così messo la fedeltà alla democrazia prima della fedeltà al capo e alla causa. Su di essi, prima che su tutti gli altri, doveva quindi abbattersi la tanto promessa tempesta (“The Storm” fin dall’inizio evocata da Q, il mitico “fondatore” di Qanon) che avrebbe ripulito Washington e gli Usa dai politici corrotti.
Questo è un altro elemento che costituisce il nucleo dell’identità dei trumpiani più fanatici: l’avversione profonda verso la politica democratica in generale. Seguendo l’impostazione manichea elites-contro-popolo, tipica del populismo e utilizzata al massimo grado dallo stesso Donald Trump, i fanatici di Trump hanno identificato in “The Donald” l’outsider destinato a fare piazza pulita dei politici corrotti che vivono a Washington. Questa idea non è per nulla una novità nel panorama politico americano, giacché l’odio verso “i politici di Washington” e nei confronti del big government è un tratto riconoscibile tra gli stessi elementi fondativi di quella nazione e già Alexis De Tocqueville aveva pensato di individuare proprio nella diffidenza verso il potere centrale e statale una delle caratteristiche chiave che distingueva la nuova democrazia americana dagli stati europei (De Tocqueville 2006).
La novità, però, è data dal fatto che questo tratto della cultura politica americana a lungo ha avuto come principale prodotto un elevato livello di astensionismo elettorale. Con Trump, invece, l’afflato antipolitico (ma ancora di più antidemocratico e anti-istituzionale), che in parte rimane non a caso inscindibilmente legato al mito americano del self made man, ha trovato il leader (politico sotto mentite spoglie) capace di interpretarlo in maniera convincente. A Trump è riuscito quello che, molti anni prima, aveva cercato di fare un altro miliardario: Ross Perrot. A differenza di Perrot, Trump ha costruito il suo successo politico scalando dall’interno un partito repubblicano già molto sbilanciato verso il fanatismo politico dall’azione portata avanti negli anni dal cosiddetto Tea Party. Buona parte del Grand Old Party ha subito con fastidio l’ascesa del tycoon newyorkese e si è adattato quando Trump è stato eletto presidente. Alcuni repubblicani si sono convertiti al fanatismo trumpiano, ma molti hanno semplicemente fatto “buon viso a cattivo gioco”.
Questa situazione non potrà perdurare dinanzi ai fatti del 6 gennaio. Non a caso Trump, in previsione di quanto è accaduto, aveva già iniziato a costruirsi un network personale (OANN) abbandonando il canale Fox News, tradizionalmente vicino al Partito Repubblicano. È il primo passo verso una macchina organizzativa per le elezioni presidenziali del 2024 totalmente indipendente dal Partito Repubblicano. Bandito da Twitter (il suo account è stato chiuso), Trump gioca in queste ore, per l’ennesima volta, la carta della vittima della censura da parte “del sistema” mentre opera l’ennesimo strappo istituzionale confermando che il 20 gennaio non presenzierà alla cerimonia di insediamento di Joe Biden. Intanto su “Parler” e su altri canali di comunicazione dell’estrema destra i suoi fanatici fanno sapere che loro invece non mancheranno di certo a questo secondo appuntamento. È la conferma di quanto scrive Federico Rampini su “La Repubblica”: «L’America non ha mai smesso di attraversare varie forme di guerra civile, larvata, virtuale, o cruenta, a seconda dei momenti» (Rampini 2021). Solo che questa volta il “momento” pare piuttosto drammatico e destinato a durare almeno altri quattro anni.
Riferimenti bibliografici
A. De Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.
G. Giraudi, Riflessioni sul complottismo populista, in “Fata Morgana Web”, 16 novembre 2020.
H. Kriesi, E. Grande, M. Dolezal, M. Helbling, D. Höglinger, Political Conflict in Western Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2012.
F. Rampini, Outlook | L’America “con laurea” guarda dall’alto i “bifolchi”, in “La Repubblica”, 8 gennaio 2021.