Alla fine #PedoBiden, uno dei principali esponenti del “Deep State” che controlla molti governi mondiali occidentali grazie a rituali satanici ed è dedito alla pedofilia e all’antropofagia, ha sconfitto il sosia che ha sostituito Donald Trump dal momento in cui il presidente americano in carica è morto ucciso dal Covid19; morbo che aveva fatto finta di contrarre per ingraziarsi parte dell’elettorato moderato. Questo, almeno, è ciò che credono diverse centinaia di migliaia (forse anche qualche milione) di persone negli U.S.A. e in altri paesi del mondo. Nessuno, ovviamente, crede complessivamente a questa storia, ma non pochi ferventi repubblicani o democratici credono rispettivamente alla prima o alla seconda parte dell’assurda sceneggiatura con cui ho esordito unendo alcune delle più estreme e diffuse “fake news complottiste” che hanno segnato le recenti elezioni statunitensi (e in parte quelle precedenti).

La questione potrebbe collocarsi a metà strada tra il ridicolo e l’irrilevante, se non fosse che da queste assurde falsità avrebbe potuto dipendere l’esito finale delle elezioni americane del 2020, e che il problema del complottismo – sostenuto tramite la diffusione sistematica di notizie false sul web – ha assunto oramai numeri tali da rischiare di mutare il rapporto tra la politica, internet e il sistema dei media tradizionali. Il fatto, ad esempio, che #PedoBiden sia stato trend topic su Twitter (e sia stato ritwittato dallo stesso Donald Trump) o che un noto esponente della famiglia mafiosa dei Gambino sia stato assassinato da un supporter di Trump che, eccitato dalla rete QAnon, ha dato realmente vita ad un Travis Bickle (il protagonista di Taxi Driver) impegnato però oggi nel folle tentativo di aiutare il Presidente Trump nella sua lotta contro il famigerato “Deep State” (Ali Watkins 2019) dovrebbero indurci a qualche riflessione sulle eredità lasciate dalla presidenza Trump e, soprattutto, sul perché il complottismo più radicale sia oramai uno degli elementi che qualifica una parte crescente della politica in rete.

Cosa spinge così tante persone a credere ciecamente e diffondere dei plot complottisti che non avrebbero alcuna possibilità di superare un qualsiasi factchecking? C’è un legame tra populismo e complottismo? Per provare a rispondere a queste domande il mio suggerimento è quello di iniziare a definire il primo termine di questa potenziale relazione. Il populismo è prima di tutto una visione manichea dello spazio politico tra popolo ed élite. In questa visione la distinzione tra popolo ed élite è ontologica; tra il popolo e le élite l’unica relazione possibile è di alterità. Inoltre, il populismo propugna un atteggiamento moralistico verso la politica. Il popolo è il soggetto virtuoso della relazione, soggetto che sta sempre necessariamente in opposizione alle élite, che quindi risultano essere per definizione corrotte e sovvertitrici della volontà popolare. Inoltre, entro questa visione, il popolo è un soggetto unitario e non contraddittorio, capace quindi di esprimere sempre una volontà compiuta, intellegibile e coerente nel tempo. Ogni segmentazione politica del popolo è fazionismo suscitato ad arte dalle élite per dividere e confondere il popolo e per sottrargli così la sovranità. Entro questo quadro valoriale mal si collocano quindi i concetti di pluralismo, di istituzione e di bilanciamento costituzionale dei poteri.

Infine, il popolo è maggioritario per definizione e quindi occorre spiegare perché anche nei sistemi democratici basati sulla rappresentanza e sul suffragio universale le élite siano in grado di estrometterlo sistematicamente dall’esercizio del potere politico. Ed è esattamente qui che il complottismo interviene per “chiudere il cerchio”. È solo attraverso una narrazione che esaspera il lato malvagio del potere, e ne magnifica contemporaneamente le doti smisurate di ingannatore, che chi è profondamente convinto della visione populista della politica può accedere ad una pseudo-spiegazione che in qualche modo tiene insieme il popolo, lungamente in catene, con le élite perennemente al potere. L’estremizzazione semplificatoria indotta dalla riduzione manichea della politica e dalla delegittimazione delle istituzioni rappresentative e di bilanciamento dei poteri produce, ma anche si appoggia su e alimenta, una predisposizione psicologica individuale verso la radicalizzazione del conflitto, che si esplica soprattutto attraverso la demonizzazione del nemico politico e una maggiore disponibilità verso narrazioni complottiste che permettono il pieno dispiegarsi di emozioni forti quali il rancore, l’odio e la rabbia. E che sia questo il nesso principale che lega populismo e complottismo lo confermano le parole di uno degli attori che meglio l’ha compreso e sfruttato: Steve Bannon.

In più occasioni il principale ideologo dell’internazionale sovranista populista ha individuato nella rabbia diffusa contro “il sistema” il sentimento chiave che alimenta la protesta politica populista, e nell’unificazione delle ali estreme e radicali contro i partiti di governo centristi e moderati la mossa politica chiave per prendere il potere nelle debilitate democrazie occidentali contemporanee (Da Empoli 2019). In questa visione la distinzione tra destra e sinistra è resa quindi secondaria o irrilevante al cospetto della frattura tra partiti sistemici e partiti anti-sistemici. Bannon prefigura quindi uno spazio politico post ideologico e post moderno, il superamento definitivo della lotta politica per come si era strutturata per tutto il ventesimo secolo. In questo nuovo spazio politico il conflitto non è più dilazionato e messo al servizio di un progetto politico emancipativo da quelle «banche della collera» (Sloterdijk 2019) che erano i partiti ideologici di integrazione di massa, ma vaga liberamente nel sistema politico in attesa di trovare un oggetto sul quale fissarsi e un luogo, reale o virtuale, dove dare vita ad una comunità politica ed ottenere così un riconoscimento pubblico. Ovviamente, le cause della rabbia crescente e sempre più diffusa e del senso di fragilità sono spesso reali.

Il declino economico relativo della classe media occidentale e di quella dei lavoratori manuali è un dato di fatto ben fotografato dalla oramai familiare «curva ad elefante» (Luce 2017) così come lo sono l’aumento sistematico delle disuguaglianze socio-economiche (Piketty 2020) e la precarizzazione estrema delle vite di un’intera giovane generazione. Ma questo non sarebbe nulla di particolarmente nuovo in campo politico. Ciò che rende “speciale” il populismo sub specie complottista è l’imputare uno stato di cose valutato come molto insoddisfacente esclusivamente alla natura puramente malvagia di una élite più o meno definita o di una persona specifica (si pensi alle innumerevoli teorie complottiste che vedrebbero coinvolti George Soros o Bill Gates in tentativi di schiavizzare l’umanità o diffondere “il meticciato” in Occidente). È il meccanismo che nei secoli ha alimentato l’antisemitismo, e che oggi ha nell’ecosistema della comunicazione digitale un luogo d’elezione. Oggi, infatti, l’abbondanza informativa determinata dalla molteplicità delle fonti e dalla quantità dell’informazione che circola ad altissima velocità nel web determina un sistema comunicativo caratterizzato principalmente dall’assenza di una struttura che determini il grado di autorevolezza delle fonti stesse, e dall’esistenza di flussi comunicativi segmentati tendenzialmente autonomi che vengono temporaneamente cortocircuitati da fenomeni di comunicazione virale.

La “teoria” complottista può così iniziare ad essere sviluppata come «plot fantasy» totalmente inventato destinato ai «veri credenti» o come «millefoglie informativo» (Bronner 2016) che ha come bersaglio un pubblico più vasto. Una volta testato in qualche «camera dell’eco» e perfezionato, è pronta per essere veicolato attraverso un sistema di siti di informazione notoriamente partigiani (Fischer 2020) e a essere notato e rilanciato dagli algoritmi di Facebook, Twitter, Google etc. grazie all’attivismo dei “credenti” e, spesso e volentieri, ad eserciti di bot che rilanciano in maniera automatica il messaggio per farlo diventare fenomeno virale, che infine non può essere totalmente ignorato dai media nazionali. Se si aggiunge magari un retweet del presidente in carica, il successo in termini di visibilità e polarizzazione degli elettorati è praticamente assicurato.

Complessivamente, questo può essere definito come un modello a tre livelli. Nel primo, quello delle echochambers dei “credenti”, il messaggio complottista ha come finalità la produzione di un nuovo ciclo di isterizzazione della comunità esistente, anche in prospettiva di una loro mobilitazione reale. Nel secondo livello il complotto diventa pubblico e genera un dibattito politico tra parti avverse con tratti molto radicali, quindi un confronto che polarizza ulteriormente il sistema politico favorendo i candidati dai tratti più radicali. Infine, se ripreso in qualche modo dai media nazionali, il messaggio complottista può diventare fonte di curiosità per elettori ancora non schierati e poco interessati alla politica. Si parla molto di cosa sarà il trumpismo quando Trump non sarà più presidente. Tra le molte cose sarà anche questa macchina mediatica, con finalità prettamente politiche, dedita al continuo rafforzamento, ad ogni costo e con ogni mezzo, delle identità radicali delle comunità di “truebelievers”– oggi trumpiani domani chissà – presenti nel web.

Riferimenti bibliografici
G. Bronner, La democrazia dei creduloni, Aracne, Roma 2016.
G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, Marsilio, Milano 2019.
S. Fischer, The rise of the pro-Trump media machine, in “Axios.com”, 16 maggio 2018.
E. Luce, The Retreat of Western Liberalism, Little Brown, London 2017.
T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Roma 2020.
P. Sloterdijk, Ira e tempo, Marsilio, Milano 2019.
A. Watkins, He Wasn’t Seeking to Kill a Mob Boss. He Was Trying to Help Trump, His Lawyer Says, The New York Times, 21 luglio 2019.

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