In Bosco Grande, il nuovo film di Giuseppe Schillaci, Palermo ha il sapore di un ritorno. Scandito dal ritmo degli aerei, dalla voce del regista, dai messaggi agli amici. Fissato in un tempo sospeso nel ricordo, quello dei primi anni ottanta, di una città underground poco esplorata non soltanto dal cinema. Quanti modi esistono per descrivere un luogo? La più grande invenzione cinematografica della città è stata certamente quella di Daniele Ciprì e Franco Maresco, che alla fine degli anni ottanta con Cinico TV mostravano con consapevolezza una Palermo che era invisibile e davanti agli occhi di tutti, facendone un universo di straordinaria potenza espressiva. Con l’ironia che lo caratterizza, Maresco ne parlava in questi termini: “Mi piacerebbe che un giorno fossimo ricordati come i cantori dell’Oreto, cioè di quella che oggi è poco meno di una discarica infestata dai topi, ma che al tempo degli arabi fu un piccolo paradiso, una sorta di valle dell’Eden. Bacchelli è stato il poeta del Po, Ciprì e Maresco, nel loro piccolo, i poeti dell’Oreto. Ciascuno ha i fiumi che si merita…”.
L’Oreto, il fiume ormai ridotto a poco più che un rigagnolo, metafora eloquente dell’incuria e del senso di abbandono che pervade la città, i suoi abitanti e le sue strade. Giuseppe Schillaci, che da molti anni vive in Francia, ha un interlocutore privilegiato nei suoi ritorni a Palermo: si chiama Salvatore Spatola, ma tutti lo chiamano Sergio. Pesa più di 250 kg, fa il tatuatore. E abita a Bosco Grande. Una zona non intaccata dai flussi turistici, che non compare in nessuna mappa della città; un nome fiabesco che potrebbe rievocare una storica villa settecentesca in cui Visconti girò parte del suo Gattopardo – ma che si trova in tutt’altra parte della città – o più prosaicamente un’antica pasticceria, residuo da poco estinto di un evidente passato. Una delle caratteristiche della città che in questo film si racconta è quella di reinventarsi costantemente già a partire dai nomi: degli abitanti, delle strade, spesso chiamati in modi diversi da quelli ufficiali. Via Boscogrande non esiste più, ma in questi termini ancora alcuni si riferiscono alla via (Marconi) e per estensione al quartiere in cui vive e lavora Salvatore, che tutti chiamano Sergio.
Il ritorno di Schillaci a Palermo è allora nel segno di un luogo che non esiste e di una temporalità incerta, a cavallo tra passato e presente. Se fossimo in una fiaba, Sergione sarebbe una specie di orco: vive a piano terra, in un’abitazione a metà tra una grotta e un garage, e col suo peso fatica a spostarsi anche solo dal suo letto. Ma in una fiaba non sapremmo nulla delle sue origini, qui invece fondamentali: è un ragazzo degli anni ottanta. La violenza mafiosa è presente nella sua vita sin dall’infanzia, nell’educazione del padre e poi nelle strade per le quali scorrazza libero sin da bambino, perché a casa nessuno si preoccupa più di tanto della sua presenza. Le donne della sua vita, il cui affetto incondizionato gli è sempre mancato, sono ai suoi occhi tormento e cura. Cresce da ribelle in una Palermo devastata, il cui centro storico è inavvicinabile, e diventa punk come rimedio. Live fast die young è il motto suo e dei suoi amici, con cui passa le giornate per strada, a ridere. Tra di loro c’è Fabio Sgroi, che un po’ per gioco e un po’ sul serio li fotografa, consegnando ai posteri il ritratto di una generazione. Sergio è tra i protagonisti del suo libro Palermo 1984-1986. Early Works; l’autore della postfazione è il pittore Francesco De Grandi, che scrive:
Punk, anarchici valprediani eravamo LA CUBA, un gruppo di attrattori impazziti, un avamposto Cyberpunk nell’interzona della Palermo anni ’80 spazzata dal vento dell’eroina statale di Villa Siringa e del Liceo Artistico puzza di piedi. Disegnatori di altri mondi, di sordide buttane e di mostri malinconici. Stavamo accovacciati sul ponte non terminato di via Belgio, una rampa che si fermava al suo culmine in un groviglio di tondini d’acciaio, verso ciò che restava degli agrumeti della Palermo felicissima, con i piedi-anfibi penzoloni, a passarci le canne di erba di Partinico e meditare di fanzine indipendenti e di fighe spaziali, sotto di noi Aranceti Meccanici a perdita d’occhio.
È una città che non è mai stata raccontata in maniera organica e che oggi si può cogliere solo per sprazzi e suggestioni: non è la Swinging Palermo degli anni sessanta a cui Piero Violante ha dedicato un bel libro, non è la città nuova e politicizzata dei primi anni settanta di Zero maggio a Palermo di Fulvio Abbate, non è quella immaginifica della via Sciuti ai tempi del delitto Moro ne Il tempo materiale di Giorgio Vasta. È una Palermo sotterranea, nascosta, notturna; musicale e politica insieme (non senza aspetti controversi e deteriori, che De Grandi riassume efficacemente nella frase “alcuni si rasarono il cranio”): il tassello di una storia dell’antagonismo e della controcultura che in Italia è tutto da scrivere. Solo nei racconti dei testimoni si trovano tracce della sua esistenza. In un altro (pressocché introvabile) libro fotografico di Fabio Sgroi intitolato Palermo 90, nel testo Fotonote dalla città con il polipo nella testa che gli fa da postfazione, Rodan Di Maria – che con il gruppo degli Airfish fu tra i maggiori protagonisti della scena musicale – parla di una città «fertile nel germogliare e irrimediabilmente paludosa nello sviluppo»; contraddittoria, sconosciuta ai più, incomprensibile a uno sguardo superficiale. «Eravamo gli sbandati, qualcosa di estremamente marginale nelle complesse dinamiche di una città famigerata perché immediatamente e universalmente identificata con determinate caratteristiche, temuta ma non rispettata, rifiutata perché diversa e occulta».
La marginalità, il disagio, ma anche l’eccezionalità e l’ironia di un luogo irriducibile a molti altri sono al centro del film di Giuseppe Schillaci; filmando un vicolo, tra le vampe di San Giuseppe e le montagne che circondano la città in preda agli incendi, ciò che si intravede è una Palermo underground e ideologicamente confusa che nelle parole di Sergione diventa quasi una Trainspotting siciliana, il cui titolo più esatto – aggiunge sornione – dovrebbe essere tuttavia Balla coi topi.
Nel tentativo di avvicinarsi al mistero racchiuso in un’esistenza, Bosco Grande è dunque in fin dei conti un film che parla di sopravvivenze. Non di vita, non di morte, ma di quella strana realtà che si muove costantemente in una specie di sospensione, senza affermarsi pienamente e senza scomparire del tutto. Una sorta di limbo, un perenne surplace, non per scelta né per destino, ricordo a tratti anche malinconico di ciò che potrebbe e mai si realizza.
Riferimenti bibliografici
F. Sgroi, Palermo 1984-1986. Early Works, Yardpress, Roma 2018.
Id., Palermo 90, Union Editions, Roma 2021.
Bosco grande. Regia: Giuseppe Schillaci; sceneggiatura: Giuseppe Schillaci; fotografia: Federico Cammarata; montaggio: Felice D’Agostino; produzione: Wendigo Films, Malfè Film, Drôle de Trame, France 3 Corse Viastella, con il sostegno di CNC, Procirep-Angoa; origine: Francia, Italia; durata: 77′; anno: 2024.