“Lui in realtà ha diciassette anni, dicono tutti che sia vecchio ma in realtà sta in gran forma”. Parola di René Ferretti, il regista “un po’ artista e un po’ bandito”, eroe e vecchia volpe con le fattezze di Francesco Pannofino. René sta parlando del suo pesce rosso, Boris, l’animale eponimo della celebre sitcom sui generis che mette in scena il backstage della televisione italiana. Nelle parole di René si rispecchia il compiacimento per un passato glorioso, ma anche la speranza che il nuovo capitolo sia all’altezza di quella storia.
Boris 4 fa molto bene quello che Boris (2007-2010) ha sempre fatto: essere una meta-serie dove le professionalità televisive mettono in scena un comico gioco di specchi che coinvolge lo spettatore, spingendolo a cogliere riferimenti espliciti e impliciti, o addirittura a instaurare nuove connessioni. A tutto ciò si aggiunge una satira del medium sul quale la serie è uscita, una piattaforma digitale, Disney+, parte di un panorama mediale frammentato a trazione statunitense. Il contesto inedito in cui si muove l’italianissima troupe di René è esposto nel nuovo testo della sigla sempre di Elio e le storie Tese: «Canterò una storia nuova,/ con i personaggi a norma./ Me l’ha detto l’algoritmo/ della nuova piattaforma».
Proporre Vita di Gesù alla “Piattaforma”, l’entità che prende il posto occupato in precedenza dalla “Rete” e dalla “Concorrenza”, sembra un’ottima idea. È una vicenda universale e non troppo italiana. È una storia antica che al contempo si può aggiustare ai tempi moderni, ma soprattutto è un soggetto high concept, immediatamente comprensibile ovunque, da chiunque, e dunque distribuibile in molteplici mercati nazionali. Vita di Gesù è anche una trovata comica proprio per questi motivi: è stata raccontata un migliaio di volte, in ogni paese, è la sintesi di tutte le serie da piattaforma che promettono qualità e originalità ma che è difficile distinguere l’una dall’altra. Gli americani, poi, se da una parte esercitano un controllo attento sui copioni e sul lavoro di backstage, spingendo per authenticity, diversity, inclusivity, dall’altra sono dei veri e propri “pulciari”. Nonostante la Piattaforma abbia concesso l’agognato lock, l’investimento maggiore tocca infatti alla casa di produzione.
Una trama articolata e se una scena è complicata non lo famo, ma lo dimo
La ristrettezza di fondi è la premessa per molti spunti comici che fanno riemergere quell’italianità condivisa alla quale Boris ci ha abituato. Vita di Gesù è finanziata da un boss della ‘Ndrangheta che ha imposto un cast di colorite comparse calabresi. Stereotipi regionali, maschere di vita vera e dialetti sono alla base di molti sketch e il linguaggio inclusivo imposto dalla Piattaforma viene subito disinnescato dalle gaffe di Biascica. Difficile poi ripulire una cultura dove il lassismo, l’insulto e la violenza psicofisica compongono il tessuto profondo. Il modo di fare “alla cazzo di cane” rimane, e viene aggiornato con una nuova espressione idiomatica, “’o dimo”, che enuclea la lezione dei fratelli Vanzina per risparmiare budget sul set: meglio dire che fare, le scene troppo complesse e costose possono essere sostituite da semplici battute che narrano i fatti accaduti. I modi di dire, i dialetti e il linguaggio comico di Boris manifestano un’italianità variegata e tenera nella sua fallibilità, che stride con una globalità americana percepita come fredda e ipocrita, talmente perfetta da risultare sospetta.
Il mondo in cui si muove la troupe di René rispecchia quello in cui è inserita la quarta stagione di Boris, distribuita da Disney+ e da Hulu (negli USA). Boris si internazionalizza proprio nel momento in cui prende di mira l’internazionalizzazione, fa la parodia delle piattaforme stando su una piattaforma, viene doppiata in inglese (e in altre lingue) proprio quando l’inglese è utilizzato per deridere l’incompetenza, l’artificialità e la megalomania dei personaggi. Il rapporto con l’America, costante nelle stagioni passate, è ancora più accentuato. Mariano Giusti (Corrado Guzzanti) ha fatto fortuna oltreoceano e ritorna in Italia con la convinzione che Cristo sia morto a 137 anni in Alabama e che i bambini debbano girare armati. Lo squilibrato attore porta addirittura una pistola sul set, rischiando di provocare incidenti che echeggiano i fatti americani più che quelli italiani. Certo, Mariano si rattrista anche per lo scioglimento del suo gruppo di “satanisti in area Pd”.
Ogni tanto la politica italiana emerge, ma è più un richiamo nostalgico che ci riporta ai giorni del berlusconismo e del dandinismo: Walter Veltroni reinventatosi come autore-conferenziere, un bel ruolo per Andrea Purgatori, i botta e risposta dei fratelli Guzzanti (finalmente assieme) in lunghi e divertentissimi dialoghi improvvisati. È ormai lontana quell’epoca agguerrita dalla quale erano uscite le vecchie stagioni, e rimanendo all’interno della Piattaforma è difficile sfruttare la triade composta da televisione generalista, politica e società. Se c’è un tema ricorrente è quello di un’Italia paese di vecchi, ma anche di non-più-tanto-giovani, come Alessandro (Alessandro Tiberi), la cui ascesa sociale è solo apparente e la cui vita è una costante di ansia e precarietà.
Una serie audiovisiva dal futuro promettente
La critica socio-politica di Boris 4 è implicita, quasi inespressa. Si è appannata anche l’idea della “locura”, il futuro italiano che in realtà è il vecchio riproposto in salsa moderna, espressa alla fine della terza stagione. Nella nuova sigla la troupe è impegnata in un attraversamento nel deserto: una transizione, ma verso dove? Il futuro è incerto, mentre il passato incombe, uno tsunami che travolge tutti. Il passato ingombrante di Boris 4 è dopotutto Boris stessa, che si dovrebbe elaborare e seppellire per guardare avanti. Un funerale c’è, è quello di Itala, la segretaria di edizione, la cui interprete, Roberta Fiorentini, è scomparsa nel 2019. La quarta stagione tutta è però una grande elaborazione del lutto per la perdita di Mattia Torre, co-sceneggiatore di Boris assieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico. Il collega e amico scomparso, in una mossa pericolosamente audace, ma profondamente affettuosa, viene corresponsabilizzato, sia nella creazione di Boris 4 che nella scrittura della Vita di Gesù. Il personaggio dello Sceneggiatore 1, diventato un fantasma, ora guida la mano degli altri due nella scrittura, risolve impicci, ha improvvisi colpi di genio. Boris è inconcepibile senza Torre, il cui alter-ego non poteva essere che Valerio Aprea, più volte erede del suo patrimonio comico-letterario in teatro e in televisione.
Proprio Aprea recitò il celebre monologo della locura alla fine di Boris 3, scritto da Torre stesso e riconfermato da un altro personaggio il cui vuoto però non è stato colmato: il Dottor Cane (Arnaldo Ninchi). L’algoritmo è facilmente ingannabile, è comprensibile (“basta drogarsi un po’”), cambia idea di frequente. Alla fine, non è ineluttabile e ineffabile come il “Totò Riina della fiction”. È spersonalizzato, è una scimmia, è un monitor, è il nulla. Gli manca quella progettualità, quell’idea di paese, quella risposta, seppur terribile. Manca quell’ordine complessivo che dia senso sia alla locura, sia alla battaglia impossibile contro di essa. Boris 4 è una serie dell’incertezza, per tempi incerti. La sua comicità esprime molteplici tensioni irrisolte e dà poche risposte al disagio che proviamo per un paese che suona stonato con il resto del mondo, in balia degli eventi, distaccato dalla cosa pubblica, senza più salvatori ma nemmeno cattivi dignitosi.
Tra supermenni e amori teen troverà il suo posticin
Dunque, nonostante Boris 4 si guardi dentro con attenzione, fatica a uscire fuori. René smette i panni di “combattente della narrativa popolare”, non può più permettersi di sbraitare contro manager e attori, e per questo inizia a danzare: nel palazzo di Erode, poi su TikTok e infine davanti alla dirigenza della Piattaforma. Più che voler cambiare il sistema dall’interno, stavolta sceglie la “prensilité”: raccogliere scarti, frammenti di bellezza in un progetto da buttare, per poi comporre il suo piccolo film. Effettivamente, quelle trame teen, quegli anti-eroi LGBTQ+, se rivoltati contro l’Algoritmo, tracciano una strada maestra, che René seguirà correndo un grosso rischio personale. Tuttavia, il regista rischia anche di rimanere nel suo, di rifugiarsi nella nicchia. È su questo punto che la quarta stagione lascia un po’ di amaro in bocca, dato che inverte la rotta rispetto a quella coraggiosa presa di posizione delle prime tre: fare una buona televisione che parli ad un paese intero è certo una battaglia persa, ma è una che vale la pena di essere combattuta fino in fondo. C’è dunque da augurarsi che il fantasma di Torre abbia ragione: seguiamo la musica, seguiamo la danza, nella speranza che prima o poi ci si presenti — o meglio, ci si inventi — una soluzione collettiva.
Il tempo per pensare a tutto ciò, in questa stagione, è poco: le battute vengono macinate una dopo l’altra, i nuovi personaggi ci incuriosiscono ma risultano un po’ troncati, complice la brevità e i tempi del binge watching, una seccante marcia indietro rispetto alle cadenze settimanali a cui Disney+ ci ha abituato. Nel ballo solitario di René, infine, si perde quello scatto finale verso un futuro collettivo. Forse, c’è da augurarsi che tale colpo di reni sia temporaneamente rimandato, e che questa sia una nuova prima stagione, non un ultimo e isolato omaggio. Le puntate infatti fanno molto ridere, si riguardano volentieri e una tira l’altra: la comicità di Boris funziona ancora. Dopo aver giustamente elaborato il passato e rinnovato l’amore per queste maschere troppo italiane, proviamo allora a vedere dove ci porta la danza. Coraggio René, conduci il tuo popolo al di là del deserto, abbiamo bisogno di trovare il nostro paese. Facci danzare tutti assieme. Ci serve “un cazzo di futuro”.
Riferimenti bibliografici
L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020.
M. Brogna, M. Loi, Boris, la “fuoriserie italiana”, in “Script”, La differenza seriale: perché il racconto televisivo è oggi più avanti di quello cinematografico, n. 46/47, Dino Audino editore, Roma 2009.
S. Carini, La fiction italiana tra immaginario e reputazione, in Storie e culture della televisione italiana, a cura di A. Grasso, Mondadori, Milano 2013.
M. Marinello, Backstage all’Italiana. Televisione, comicità e immaginario nazionale, in “Boris”, la serie, Edizioni Estemporanee, Formigine 2022.
I. Pezzini, Uno sguardo trasversale sulla fiction italiana. Il caso Boris, in Mondi Seriali. Percorsi semiotici nella fiction, a cura di M.P. Pozzato, G. Grignaffini, RTI, Milano 2008.
E. Terrone, Boris 2: il libro, Feltrinelli, Milano 2011.
E. Terrone, Boris 3: il libro, Feltrinelli, Milano 2012.
Boris 4. Ideatori: Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo; Interpreti: Francesco Pannofino, Alessandro Tiberi, Caterina Guzzanti, Carolina Crescentini, Pietro Sermonti, Paolo Calabresi; produzione: The Apartment; distribuzione: Disney+, origine: Italia, anno: 2022.