“Viva la Polonia, perché senza la Polonia non ci sarebbero i polacchi”, diceva con fare canzonatorio Alfred Jarry nel suo Pere Ubu. Canzonatorio, sì, perché come la storia ci insegna non sono le nazioni a fare i cittadini, ma semmai il contrario. È il desiderio di quest’ultimi, come ci tocca appurare in tempi non sospetti, di proteggere, legittimare o almeno immaginare una patria a rendere chi la abita parte di un progetto comune. Questo ragionamento si applica persino meglio a quello strano oggetto chiamato Polonia. E non è un caso, forse, se la massima di Jarry si riferisca proprio a essa, e non a un’altra nazione. In un certo senso, allora, potremmo annientare la freddura rimettendo i termini al loro posto: “Viva i polacchi, perché senza i polacchi non ci sarebbe la Polonia”.

O, in alternativa, potremmo osare riscrivere la massima con qualche leggero, abusivo ritocco: “Viva il cinema polacco, perché senza il cinema polacco non ci sarebbe la Polonia”. A sentirla sembra un po’ una sparata. Come potrebbe il cinema prendersi la briga di tenere a galla un’intera nazione? Se leggete Blu, bianco e rosso (Il Saggiatore, 2024), il testamento letterario del maestro Krzysztof Kieślowski, forse ve ne farete un’idea. È il più sincero, e per questo talvolta amaro, dei documenti in circolazione sul difficile connubio tra cinema e stato, arte e politica, mestiere e successo. Nonché, in due parole, un dossier non voluto sull’esistenzialismo polacco. Un esistenzialismo talmente ossificato, rude e inesorabile da non essere poi nemmeno un vero e proprio esistenzialismo, quanto semmai un sentimento. Ma rallentiamo un attimo.

Kieślowski è stato probabilmente il più importante regista che la Polonia abbia mai conosciuto. Autore di decine di documentari e lungometraggi, alcuni dei quali gli sono valsi una buona carrellata di premi e candidature in tutto l’Occidente, dalle palme d’oro alle implausibili candidature agli Oscar. La trilogia dei colori, La doppia vita di Veronica e Il Decalogo hanno fatto rimbombare il suo nome in Europa e Stati Uniti, offrendogli una consacrazione che lui, fino all’ultimo, ha continuato a reputare ingloriosa. Perché «realizzare film non significa avere a che fare con pubblico, festival, rassegne e interviste. Significa alzarsi dal letto ogni mattina alle sei» (Kieślowski 2024, p. 23). Significa tenere la schiena piegata sulla macchina da presa, gli occhi stretti sulla pellicola e – se siete in Polonia, dice lui – il tasso alcolemico sballato già dalle dieci del mattino. Fare il cineasta non ha niente a che vedere con la sublimazione di qualche bizzarro istinto, con il tocco di genio dell’artista o con una non meglio specificata somma di atteggiamenti brillanti da ostentare tra un ciak e l’altro. Il cinema è mestiere come lo è ogni altro lavoro. Soprattutto in Polonia, dice lui.

Kieślowski nasce nella Varsavia del 1941. Con la madre e la sorella segue il padre malato di tubercolosi da un sanatorio all’altro, attraverso un circuito di andirivieni che durerà dodici anni. Evita il servizio militare fingendosi schizofrenico. Poi, dopo due tentativi andati a vuoto, riesce a entrare alla scuola di cinema di Lodz, una sede prestigiosa situata in una città massacrata dalla sua industria tessile, in cui gli aspiranti autori di cinema convivevano con mutilati di ogni tipo. E lo facevano nel senso più immediato e cinico del termine:

Quando ci vivevo con i miei amici facevamo spesso un gioco che era molto semplice ma che richiedeva una certa lealtà. Al mattino, mentre andavamo a scuola, dovevamo riuscire a fare un certo punteggio: se vedevamo qualcuno senza un braccio avevamo un punto, senza due braccia due punti, senza una gamba due punti, senza due gambe tre punti, senza braccia e senza gambe, cioè solo il tronco, dieci punti, e così via (ivi, p. 72).

In quegli anni, la Polonia stava cercando di farsi stare addosso un nuovo vestito socialista. Un vestito stretto, che dalla teoria ai fatti si era tradotto nella marcata restrizione delle libertà personali e pubbliche, nella disillusione nera e nella repressione forzata dei dissidenti. L’imposizione di un governo in puro stile sovietico diede per un attimo l’illusione che le cose sarebbero potute cambiare, che la scalata al benessere collettivo non era un’eresia, ma un progetto alla portata di tutti. Un pensiero osceno, che si sarebbe presto rivelato fatto di sabbia: a metà anni settanta i generi alimentari erano pochi e costavano troppo, scioperi e proteste erano all’ordine del giorno, l’umore del paese era al collasso.

Senonché, in questo clima di rabbia e terrore, c’era rimasta la cultura, l’ultimo baluardo di resistenza. L’unica maniera di continuare a esprimere le obiezioni del pensiero sociale sottraendole al tempo stesso ai morsi della fame. Il cinema assolveva un doppio compito: da un lato, forniva contenuti di impatto diretto, capaci di tenere viva l’agitazione politica degli spettatori; dall’altro, riusciva a eludere la censura confezionando quei messaggi in un linguaggio comprensibile esclusivamente ai giusti destinatari.

Di qui il trionfo dei documentari sui lungometraggi, del cosiddetto “cinema dell’ansia morale”, un movimento anomalo, che tuttavia faceva da specchio alla verità negata dal comunismo. Il meccanismo funzionava alla perfezione: il Partito finanziava produzioni di cui, puntualmente, non riusciva a cogliere lo spirito polemico; ai registi, d’altro canto, non era richiesto di compiacere ossessivamente pubblico e produzione. Nello strano e martoriato oggetto Polonia, insomma, vigeva una libertà artistica che nel resto dell’Occidente progressista era impensabile.

Nel 1989 poi, la Polonia diventa libera, ma per uno strano paradosso di cui solo la storia conosce i retroscena, la libertà porta con sé una crisi economica senza precedenti. Il fervore artistico si stempera con la fine del regime. Il paese è triste, esausto, immobilizzato dalla rabbia. La solidarietà è precipitata nell’«amarezza generale» (ivi, p. 137). Kieślowski dice che il problema non è propriamente economico né politico, perché alla fine alla realtà, sia come sia (la fame, il silenzio, la censura, il regime) ci si abitua. Il problema è quando si deve mettere la testa fuori dal pertugio.

Non è una faccenda di antagonismi sociali, di un bivio tra un regime e l’altro, tra un sistema che la libertà la nega a priori (comunismo) e un altro che la mercifica al miglior offerente (capitalismo). È piuttosto una questione di anticorpi, di quelle malattie del sistema immunitario a cui credevi di essere immune e invece non lo eri, e poi da cui credevi di essere guarito e invece eri ancora malato, e che alla fine ti porti dietro fino alla morte: di quel «comunismo [che] è come l’AIDS», che una volta che ti si intrufola nel sangue non ti uccide, ma ti segue a ogni passo, fino alla morte (ivi, p. 139).

C’è comunque da dire che dal “cinema dell’ansia morale” Kieślowski se ne era tirato fuori ancor prima dei suoi colleghi impegnati. Ha abbandonato i documentari nel 1980, in circostanze che meritano spazio. Stava girando un documentario chiamato La stazione. Niente di eccezionale, a suo dire, ma almeno le riprese procedevano. Non fosse che, una notte, riceve una visita della polizia che gli sequestra il nastro assieme a tutto il resto del girato. Il suo intuito fa i conti velocemente: il Partito ha incaricato la polizia di requisire il film perché teme che al suo interno vi sia qualcosa di politicamente illecito. La pellicola deve aver catturato un momento scomodo, una scena che non può essere mostrata. Giorni dopo, quando gli restituiscono il materiale, rimane sbigottito: «Scoprimmo che quella notte una ragazza aveva ucciso la madre, l’aveva fatta a pezzi e poi messa in due valigie. E, proprio quella notte, aveva messo le valigie in uno degli armadietti della stazione centrale» (ivi, pp. 104-105).

La forma-documentario, che pretende di catturare la realtà per come essa è veramente, viene improvvisamente scardinata dall’irruzione di un reale inammissibile, di un eccesso traumatico che ne spezza gli argini, si dirà. E invece no. Il sentimento polacco, ruvido e inesorabile, ci sorprende ancora una volta: a essere davvero disturbante, per Kieślowski, non era l’irruzione del reale, quanto la prospettiva – ben più indigesta – di ritrovarsi a collaborare con il Partito. Di pensare, almeno per un solo attimo, che la dura maestranza del cineasta potesse prestarsi alle esigenze del regime, a prescindere dalla loro urgenza. Questione di sangue ancora una volta, tentativo istintuale di tenersi alla larga dal virus.

Perché la realtà muta troppo velocemente per pretendere di starle dietro. E quando non muta è costantemente complicata dalle sue infinite prospettive. E invece il sentimento polacco rimane sempre lo stesso. Irreale, monocorde, compromettente, eppure rimane: «Sono nauseato dalla realtà polacca, perché tutto segue un proprio destino indipendentemente dalla nostra volontà» (ivi, p. 161), conclude il maestro. Forse Jarry aveva ragione, senza la Polonia non ci sarebbero i polacchi. Viva la Polonia, allora.

Krzysztof Kieślowski, Blu, bianco e rosso, a cura di Danusia Stok, Il Saggiatore, Milano 2024.

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