È notte fonda. Una madre entra nella stanza da letto di sua figlia e in modo trafelato le ingiunge di alzarsi, la prende in braccio e corre fuori dalla stanza, nel corridoio, in strada. Il volto spaventato della bambina si apre in un sorriso quando si accorge che nel buio piovono dal cielo lentamente fiocchi grigi, soffici. È la cenere di un enorme incendio che costringe tutta Hollywood a mettersi a riparo dalle fiamme. Andrew Dominik si abbandona al primo dei tanti ralenti del film, la scena si sospende nella dimensione eterea del tempo non tempo permesso dal cinema, tutto sembra levitare.
È precisamente questo senso di levitazione a guidare la forma che il regista sceglie di dare al racconto di Norma Jeane, alias Marilyn Monroe, qui interpretata da una sorprendente Ana De Armas – nelle prime scene bambina, figlia di una madre nevrotica e di un padre mai conosciuto, poi adolescente, alle prese con agenti che le aprono l’ingresso al mondo dello spettacolo a suon di violenze, e poi ancora avanti, nell’ascesa stellare del successo, i triangoli amorosi, i matrimoni, il crollo psicofisico. La storia della diva tutti la conoscono e Dominik la segue in modo filologico, dando spazio talvolta anche ad un’asciuttezza coraggiosa nel metterla in immagine (i tre aborti, la fellatio a Kennedy, i malesseri di un corpo martoriato).
Aspetto su cui è interessante riflettere è piuttosto il rapporto tra racconto filmico e icona. Perché se ci pensiamo un attimo, l’icona – e non c’è forse icona più grande nella storia del cinema di Marilyn Monroe – è per definizione un corpo che viene portato a rappresentazione eppure tende sempre ad un oltre da sé, un indicibile. Esiste un’immagine di quel corpo, ma è un corpo che sfugge alla comprensione aprendosi ad una trascendenza che, quella sì, è impossibile da mettere in immagine. Se c’è qualcosa di profondamente convincente nel film di Dominik, a prescindere dalle sue sbavature e da qualche orpello di troppo, è precisamente il tentativo di dare corpo a quel perenne stato di evaporazione che rappresenta il corpo dell’attrice più famosa al mondo. Marilyn, da subito, da quando trasfigura il suo corpo reale rendendolo immagine – il finto biondo, il falso neo, le forme risaltate – si distacca dalla materia e diventa un’idea. Un’idea di donna, di cinema, soprattutto l’idea astratta di una storia, quella di Hollywood, che si costruisce da zero in pochi anni ambendo tuttavia a sedimentarsi nella coscienza occidentale con la forza di una memoria preistorica, primordiale.
In questo ossimoro si innesta la storia del cinema americano e al contempo quella di una città, Los Angeles, in cui, come dice la madre della piccola Norma ad inizio film, “non si capisce mai cosa è nelle nostre teste e cosa è reale”. Che vuol dire, in altre parole, cosa è reale e cosa invece è destinato a nascere in quanto immagine, scavalcando la natura corporea delle cose e mostrandosi direttamente parto dell’immaginazione. Ecco perché Marilyn è tanto affascinante quanto mostruosa – anche disgustosa, irritante, come Dominik ce la mostra. Il suo corpo deforma il reale e lo tramuta senza alcun passaggio intermedio in un’idealità intoccabile e al contempo incorporea, fragile, evanescente.
Cosa può l’immagine cinematografica su Marilyn? Questo è l’interrogativo alla base di Blonde – certo preceduto da film di un’altra categoria, il poema visivo che Pasolini le dedica ne La rabbia, tanto per dirne uno. La risposta che sembra darci Dominik è che per rimanere accanto al corpo della diva, per far sì che rimanga terreno in modo da diventare per un istante racconto, la macchina da presa deve braccarlo in modo morboso, come fosse lo sguardo di un adoratore. Deve, in altre parole, far diventare quell’icona un idolo – l’idolo delle folle fuori dalle sale di pietre miliari come Quando la moglie è in vacanza o A qualcuno piace caldo, ma anche quello che Marilyn stessa, in cerca di un’immagine corporea che fatica a trovare, guarda nello specchio dopo essersi truccata. La donna, di fronte alla raffigurazione riproducibile, dunque reale, che vede riflessa davanti a sé, ricomincia a respirare, perché così, “imbellettata” di materia, riesce anche solo per qualche secondo a darsi di nuovo una consistenza.
Però il cinema fallisce, anche quello di Dominik, e spesso la forma del film è costretta ad evaporare con l’attrice, a farsi luce bianca, dissolvenza, che certo è stucchevole, perché non dovrebbe essere raffigurata. Lì il cinema sta tentando di dare corpo ad un’immagine che sfugge, a un idolo che scalpita per diventare icona, alla soglia tra realtà e immaginario. Ma in quel limbo non sopravvive il cinema così come non sopravvive Norma. E alla fine la cinepresa si accascia letteralmente a terra, sulla moquette della stanza da letto in cui la diva si toglie la vita, come a significare che accetta di lasciarla andare, definitivamente, che la rincorsa è finita e quel corpo è sfuggito dalle “dita” dell’immagine cinematografica come sfugge un fiocco di cenere.
Blonde. Regia: Andrew Dominik; sceneggiatura: Andrew Dominik; interpreti: Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale, Xavier Samuel, Julianne Nicholson, Lily Fisher; produzione: Plan B Entertainment origine: USA; durata: 166′; anno: 2022.