Dopo 5 stagioni e il film Bandersnatch, a distanza di 4 anni, Charlie Broker torna con la sesta stagione di Black Mirror, la serie antologica che ha rappresentato il più icastico e disturbante florilegio di racconti distopici dell’ultimo decennio. Dis-utopia allo stato puro, nell’accezione più recente e diffusa del temine: un universo immaginario in cui le condizioni umane, politiche, sociali e tecnologiche concorrono a creare situazioni del tutto indesiderabili e inquietanti.
“Cinque nuovi film, cinque nuovi mondi, cinque nuove realtà, cinque nuovi incubi, rivelazioni, allucinazioni, labirinti”. Così recita il trailer dell’ultima stagione di Black Mirror, e certamente la scelta del formato antologico, con la possibilità di creare molteplici mondi, diversi in ogni episodio, è parte del fascino di questa serie che rappresenta il miglior epigono digitale dell’illustre creazione televisiva degli anni ’60 The Twilight Zone (Ai confini della realtà).
Mantenendo il sostrato allucinatorio e angosciante delle stagioni precedenti, caratterizzate da una costante riflessione sulla tecnologia, i media, i video giochi, il controllo delle coscienze, le idiosincrasie sociali, la sesta stagione cerca spunti nuovi che si declinano in una direzione più cinematografica, che esplora i generi ed è carica di citazioni (Kubrick, Lynch, Capra, De Palma, fantascienza spaziale anni ’60, horror soprannaturale, true crime, found footage, fantasy, fantascienza apocalittica).
Umorismo e orrore sembrano i fattori di novità che caratterizzano maggiormente questi ultimi cinque episodi, dove elementi di commedia e di horror si miscelano e si alternano, attenuando con divertimento e ironia la dimensione di agghiacciante straniamento. Il primo episodio Joan is Awfull sviluppa una trama metafinzionale in cui la serie cita i principi stessi della narrazione seriale, nonché la logica e la grafica della piattaforma streaming. È l’episodio più fedele all’impronta delle stagioni precedenti di Black Mirror. Joan è una ragazza comune che vive una vita ordinaria e una sera, scegliendo qualcosa da vedere sulla piattaforma Streamberry (alias Netflix), scopre che le sue azioni quotidiane, nei minimi dettagli, sono diventate una serie tv interpretata da Salma Hayek (o meglio, da una versione digitale di Salma Hayek). A sua volta Salma Hayek vede una serie sulla sua giornata, interpretata da Cate Blanchett.
La serie, che esagera e amplifica ogni cosa, genera conseguenze devastanti sulla vita reale di Joan che perde il lavoro e il fidanzato. Decide dunque di agire legalmente ma scopre che tutto è perfettamente legale perché incluso nelle clausole sul consenso, che ha inconsapevolmente sottoscritto. Un computer quantistico – erede evoluto di Hal 9000 – rende tecnicamente possibile questo tipo di creazione televisiva. Il sistema si impossessa letteralmente della vita dell’ignaro spettatore, ben al di là delle dinamiche di un voyeuristico reality show, trasformandola nella sceneggiatura di un film.
Il confine tra vita e schermo è pericolosamente impercettibile e la quarta parete si può facilmente abbattere col semplice tasto del telecomando (come in Bandersnatch) o con un comune software di riconoscimento vocale. Il rischio orrorifico e angosciante di questa osmosi tra vita e schermo tv – già vista, tra gli altri, in Videodrome e in The Ring – diventa in Black Mirror una scatola cinese, un ossessionante effetto Droste, un Truman show dell’era digitale dove in gioco non è solo la vita privata in sé, ma la sua arbitraria riproducibilità sulla base di un consenso rilasciato inconsapevolmente con un click.
La piattaforma mette dunque ironicamente in scena se stessa con i suoi algoritmi riflettenti e i suoi giochi di rispecchiamento col cliente spettatore, sfondando la barriera dello schermo e capovolgendo la linearità logica dello sguardo in una inquietante visione eternamente reciproca ma mai davvero consensuale. Un gioco di rispecchiamento più che di visione. Un rispecchiamento impossibile attraverso uno specchio nero e opaco, se non nella forma di un inabissamento.
Il secondo episodio si intitola Loch Henry, il nome di una località scozzese dove due giovani studenti di cinema si recano per girare un documentario naturalistico. I due ragazzi cambiano però idea e decidono invece di girare un film true crime su un cruento fatto di cronaca avvenuto in quel luogo diversi anni prima. Gli sviluppi della storia si muovono tra thriller, horror, crime, con colpi di scena e orrore, tutto all’insegna – ancora una volta – di voyerismo morboso e rivelatore che comprende giornalismo di cronaca nera, documentario true crime, found footage e videocassette VHS in cui sono registrati feticisticamente gli episodi di una serie tv anni ’80.
L’episodio Beyond the Sea è un’immersione nella fantascienza spaziale anni ‘60. Due astronauti, Cliff e David, sono soli nello spazio per una missione che dura da anni. Hanno la possibilità di “vivere” di tanto in tanto sulla terra con la propria famiglia, utilizzando una sorta di androide-avatar nel quale trasferiscono la loro coscienza. Una notte, una setta di fanatici alla Charles Manson si accanisce contro la replica androide di David, considerata un’aberrazione della natura, e contro tutta la sua famiglia. Le conseguenze saranno sconvolgenti e irrimediabili per entrambi gli astronauti. Un’odissea nello spazio ipnotica e raggelante per un’umanità capace di spaziare in realtà parallele, mondi alternativi, metaversi, ma sempre sopraffatta da pulsioni incontrollate e destinata ad una solitudine alienante e socialmente utile.
Il titolo del quarto episodio, Mazey Day, è il nome di una giovane e celebre attrice che scompare improvvisamente e inspiegabilmente dalle scene, attirando la curiosità e l’attenzione di giornalisti e paparazzi. Si sospetta che l’attrice si trovi in una segreta struttura di disintossicazione, e una foto che riveli la sua situazione ha un valore incalcolabile. La giovane fotografa Bo, che aveva lasciato il lavoro di paparazza per scrupolo morale e senso di colpa, allettata dal lauto compenso, riprende la macchina fotografica e si mette alla ricerca di Mazey Day. Si scoprirà una verità diversa dal previsto, in un racconto che – come Nightcrawler – mette in scena il proverbiale, spregiudicato cinismo dei cacciatori di scoop, con godibili risvolti horror-fantasy.
L’ultimo episodio è Demon 79, ambientato in Gran Bretagna nella cupa era thatcheriana. Nida è una giovane commessa di origine indiana che lavora in un grande magazzino, schivando le piccole angherie quotidiane di una società xenofoba e razzista. Trovandosi casualmente a contatto con un misterioso talismano, Nida evoca, senza volerlo, il demone Gaap che ha le fattezze di Bobby Farrell, il cantante ballerino dei Boney M. Il povero demone, come il Clarence di La vita è meravigliosa di Frank Capra, deve compiere la sua prima missione sulla terra, per guadagnarsi le ali. Solo se il demone riuscirà a convincere Nida a compiere tre sacrifici umani sarà possibile impedire la fine del mondo, prefigurata sotto forma di imminente apocalisse nucleare, spettro costante della guerra fredda. Se Gaap fallirà sarà bandito e condannato all’eterno oblio. Anche qui la realtà ha diversi livelli e molteplici narrazioni: la grigia routine della vita quotidiana, la dimensione esoterica dei demoni, la visione apocalittica del futuro, il nulla cosmico.
In Black Mirror le diverse messe in scena del mondo possono essere alternative o parallele alla vita reale e terrena (serie tv, film, documentari, fotografie) e collegate spesso al tema della riproducibilità dell’uomo stesso, attraverso la duplicazione o trasformazione del suo corpo (androidi, versioni digitali di attrici, licantropi).
La duplicabilità dell’esperienza umana è possibile, l’unicità dell’individuo è utilmente e proficuamente riproducibile tramite algoritmi, cessione di dati personali, intelligenze artificiali. Opportunità di progresso o fatale deumanizzazzione? O entrambe le cose? La risposta di Black Mirror non può essere che ironica.
La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenta e tutto è perduto (Chaplin, Il grande dittatore, 1).
Cosi diceva nel 1940 un barbiere ebreo molto somigliante ad Adolf Hitler. Nel finale di Black Mirror 6, evitando, con intelligente cinismo e ironia ogni facile moralismo o deriva nichilista, risuona l’idea che tutto sia ormai perduto, ma la fine del mondo potrebbe non essere così male, se un uomo e una donna tenendosi per mano si avviano verso il nulla cosmico, banditi per sempre nell’eterno oblio, al suono di Bright Eyes di Art Garfunkel.