1. Interattività I
Bandersnatch soddisfa almeno una delle principali caratteristiche dell’interattività: il testo è effettivamente costruito dallo spettatore, nel senso che effettuando via via una delle due scelte che gli vengono proposte, o anche decidendo talvolta di non effettuarne nessuna, alla fine egli avrà montato una storia di cui potrà dire con ragionevole certezza, e con sicura legittimità, che gli appartiene almeno quanto appartiene agli autori. I quali hanno concepito questo prodotto come una macchina generativa di varianti testuali (di numero elevato ma finito) e non come un testo unitario. L’hanno concepita, in altri termini, come un racconto privo, a rigore, di una configurazione accreditata.

2.  Storie che (non) si concludono
Prendo questo concetto – configurazione – da Paul Ricoeur (1985-87), che a sua volta lo prende dalla Poetica di Aristotele (2004), della quale traduce il termine systasis o synthesis. Sia per Ricoeur che per Aristotele una storia unitaria, come ad esempio quella che viene raccontata nel testo tragico, è una concatenazione di azioni (systasis ton pragmaton) il cui utile precipuo consiste proprio in questo atto sintetico – che Ricoeur paragona all’attività che Kant attribuiva alla facoltà di giudicare: comporre in unità un molteplice disperso e collocarlo sotto una regola. Spesso una regola che non è ancora data, ma bisogna trovare impegnando una certa creatività.

3. Utilità delle storie
Di che utilità stiamo parlando? Di quella che, in generale, possono riservare le storie compiute a fronte della dispersione e dell’incompiutezza, magari anche del disordine (e del panico da disordine), in cui ci muoviamo prevalentemente nella nostra vita. E da cui forse non sapremmo emanciparci – o saremmo sopraffatti – se non ci venissero continuamente raccontate delle storie compiute, di diversa complessità. Richiamo l’attenzione sul compimento perché si tratta del tema che la visione interattiva di Bandersnatch mi ha suggerito con più insistenza. Ma anche quello che ha suscitato in me alcune emozioni molto singolari (ci tornerò).

4. Intelligenza delle emozioni
Ci sarebbero dunque emozioni specifiche legate al “senso di una fine” (Kermode 2004)? Ma certo. Già in Aristotele, naturalmente, se guardiamo al concetto di “catarsi” secondo una latitudine ampia, cioè riferendolo all’intera tragedia e non a singoli passaggi, o meglio, riferendolo al fatto di aver seguito da spettatori (o da lettori) il suo intero svolgimento. Molti autori, tra i quali Gadamer (2000) in una intensa pagina del suo libro più famoso, insistono sul fatto che l’utilità (v. punto 3) del sentimento catartico, legato al senso della fine, si presenta secondo una peculiare declinazione etica: chi lo prova si accorge (intelligenza delle emozioni) che sta sperimentando una modifica essenziale nel suo ethos. Si accorge, cioè, che egli stesso, per così dire, non è più quello di prima. È interessante constatare che questa modifica coincide, per Gadamer, con il principale significato del concetto stesso di “esperienza” (Erfahrung). Un concetto, aggiunge il filosofo, tra i più oscuri di cui il pensiero debba occuparsi.

5. Un’esperienza singolare
Dunque un testo che non è stato progettato per concludersi in un certo modo, ovvero un testo che, come Bandersnatch, lascia allo spettatore la facoltà di concluderlo in un modo piuttosto che in un altro sarebbe un testo che non ci fa fare un’esperienza catartica? E anzi, se è vero quanto ho detto in 4., un testo che ci depriva dell’importo etico essenziale di un’esperienza in genere? Se le cose stessero così bisognerebbe ancora capire – o meglio, sarei io che mi troverei nell’obbligo di capirlo – come mai ho potuto dire (in 3.), che Bandersnatch ha suscitato in me emozioni singolari proprio per il fatto che la questione della fine vi è trattata in modo aleatorio. La parola “singolare”, preciso ora, va intesa in tutti i suoi sensi, a cominciare da quello distributivo: il finale che mi è capitato di raggiungere dopo averne scartato un altro, infatti, è “singolare” nel senso che mi riguarda in quanto singolo e che non potrei condividerlo con nessuno che non avesse implementato la mia stessa sequenza di scelte binarie (e di alcune non-scelte, come ho detto in 1.).

6. Condivisioni
Lo spettatore interattivo di Bandersnatch, dunque, arriverà prima o poi alla conclusione che  quella esperienza (che forse non è un’esperienza, almeno nel senso di Gadamer) non potrà condividerla con nessun altro. Dove “condividere” qui significa anche discuterne animatamente contrapponendosi a chi la interpreta in modo diverso da noi. Sorge dunque il sospetto che ciò che lo spettatore interattivo di Bandersnatch potrà condividere con altri è solo la singolarità di cui sto trattando qui. Anzi, ho l’impressione che questo articolo altro non sia che la (paradossale) condivisione di una singolarità. O almeno un modo di provarci.

7. Incompiuto e incompibile
La mia esperienza singolare di Bandersnatch, dunque, è quella di un’incertezza che è venuta inesorabilmente a gravare, in modo forse indesiderato – e dopo un po’ angoscioso – sul senso di una storia peculiarmente incongruente col senso di una fine. Per spiegare questo avverbio (che fa pendant con la singolarità su cui sto riflettendo) dirò che di storie senza fine ne abbiamo conosciute a iosa, nella modernità, e mi limiterò a citare, per tutte, L’uomo senza qualità di Musil. Aggiungendo, come doveroso contrappeso, che a me è capitato spesso di non aver finito la lettura di un romanzo o di aver abbandonato la visione di un film senza troppi rimpianti; ma non perché quei testi non meritassero di essere seguiti fino alla fine, bensì perché la mancata acquisizione dell’atto che completa la configurazione di una storia non mi sembrava qualcosa che andasse davvero a insidiare l’idea di “esperienza narrativa” che mi sono fatto come lettore e spettatore di film. In altri termini: la sanzione di incompibilità (alla Musil), così come la constatazione di un’incompiutezza fattuale e contingente (come quando si lascia un libro in treno o si interrompe la visione di un film per andarsene a letto), non minacciano seriamente gli effetti canonici dell’unità narrativa e i pregi esperienziali annessi al fenomeno della configurazione. Mentre di Bandersnatch non si può dire lo stesso. O almeno io non me la sentirei.

8. Autoreferenzialità
Mi sto avvitando sulla singolarità? Sto menando il can per l’aia perché del singolare, com’è noto, non c’è scienza e non riuscirei a concludere decorosamente questo articolo? Potrei magari lasciarlo incompiuto perché, in fondo, non è che lo specchio di un’esperienza del tutto privata? E se ricorressi anch’io a qualche collaudato espediente autoreferenziale? Al quale, del resto, e non certo a caso, Bandersnatch allude più volte. Per esempio quando vediamo palesarsi il set degli studi di Netflix in cui si sta girando il film – come nell’Intervista (1987) di Fellini o in Inland Empire (2007) di Lynch. O, ancora, quando Stefan, il protagonista, comincia a denunciare in modo angoscioso la sensazione che qualcuno lo stia controllando e decidendo per lui. 

Ora, in realtà, questa denuncia potrebbero farla anche Anna Karenina e Ulrich: solo che costoro la starebbero rivolgendo a Tolstoj e a Musil, e non a me (ed è indubbio che è a me che Stefan l’ha indirizzata). Abbiamo toccato qui un punto particolarmente sensibile. Lo presenterò in modo scorciato, anche se meriterebbe una lunga digressione: a un testo interattivo come Bandersnatch capita prima o poi di iscrivere nel gioco narrativo la caduta, irrecuperabile, di quella sensazione di necessità (ecco un altro termine aristotelico) e, aggiungerei, di oggettiva impersonalità che tiene costantemente vigile la nostra attenzione e la nostra credenza quando ci limitiamo a leggere un racconto, e a cooperare attivamente ai fini della sua comprensione.

9. Interattività II
In diverse occasioni mi è capitato di richiamare l’attenzione sulla necessità di distinguere tra interattività e cooperazione interpretativa. Non basta cooperare massicciamente – o anche in modo spericolato, com’è richiesto nei casi difficili – all’interpretazione di un testo per decidere che quel testo è interattivo. L’interattività richiede che il testo venga a costituirsi tramite l’attività cooperativa, e questo requisito come ho già detto in 1. è soddisfatto da Bandersnatch. Lo è anzi a tal punto che il testo che avrete contribuito a costituire si presenta come una singolarità di cui potrete condividere solo alcuni effetti collaterali – come ad esempio il fatto che esso manchi di un atto unitario di configurazione – e non anche il senso. Perché il senso eventualmente configurato (per es. il senso sancito dal finale che mi è capitato di raggiungere) appartiene alla singolarità che avete prodotto voi e non al testo di partenza, che resta una macchina generativa di un numero elevato, ma finito, di varianti.

Lo spettatore interattivo si trova, in tal modo, in una situazione anomala: egli può, e forse deve, impegnare una normale attività di cooperazione interpretativa solo dopo aver interagito ai fini della costituzione del testo. Solo dopo averlo costituito, cioè, egli si troverà nelle condizioni di provare a capire, e a sentire, che cosa avrà via via proceduto a comporre. E se nella composizione, e nei sentimenti che l’hanno accompagnata, sia per caso comparsa quella necessità, o impersonalità oggettiva, che ho indicato in 8. Un po’ come succede nel bricolage, o nell’improvvisazione, o in quelle forme della produzione artistica (l’action painting, per esempio) che seguono il principio del “darsi la regola via via che si procede”. Per cui solo alla fine tu – bricoleur, improvvisatore, action painter – arrivi ad afferrare la necessità di ciò che hai prodotto, e che cosa hai davvero percepito e sentito nel produrlo. Siamo al punto: e se stesse proprio in questa “posteriorità” o in questo “ritardo” (in questa Nachträglichkeit diceva Freud a proposito del lavoro dell’inconscio) uno degli effetti significativi dell’interattività in genere, un effetto molto ben orchestrato da Bandersnatch? Perfino sul piano del plot, come ora ci accorgiamo (o meglio: come ora mi accorgo).

10. Catarsi
Nella Psicologia dell’arte il grande psicologo Lev S. Vygotskij (1975) ripensa il concetto aristotelico della catarsi più o meno nel modo che ho appena esplicitato. Solo alla fine della lettura di un testo (o della visione di un film) mi si fa chiaro (“chiarificazione” è uno dei significati della parola greca) quali fossero davvero quei sentimenti, quei “pathe” opachi, ambigui o perfino contraddittori, che ho provato, senza afferrarli davvero, mentre ne seguivo lo svolgimento. Me ne accorgo nachträglich, a cose fatte. Troppo tardi? Ma niente affatto! Dovevo raggiungere la fine della storia per potermene accorgere. Su questo punto convergerebbero volentieri Aristotele e Ricoeur, Kermode e Gadamer. E naturalmente anche Freud.

Ma com’è che ora sto parlando di “fine della storia” dopo aver detto e ripetuto che Bandersnatch ne è singolarmente privo? Il motivo è questo: che un “senso della fine” configurato interattivamente da Bandersnatch è, grosso modo, quello che, secondo una ineluttabile movenza riflessiva, viene fuori dallo sforzo di pensiero che ho impegnato qui per alludervi. Quel film (permettetemi di chiamarlo così) mi ha dato da pensare qualcosa che non avevo ancora ben chiaro a proposito della conclusione delle storie. È per questo che, a dispetto delle sue imperfezioni, giudico Bandersnatch come un testo che, facendoci pensare e capire qualcosa di più su un fenomeno così comunemente frainteso o banalizzato come l’interattività, merita l’elogio che ho provato qui a confezionargli.

Riferimenti bibliografici
Aristotele, Poetica, a cura di D. Guastini, Carocci, Roma 2010.
H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000.
F. Kermode, Il senso della fine, Sansoni, Milano 2004.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1985-1987.
L.S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma 1975.

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