Quando puoi mentire o negare su tutto,
come fai a dire la verità?

«Londra, venerdì». Un uomo cammina nella notte (ripreso di schiena, in un long take dai vaghi umori scorsesiani) mentre entra in un locale, attraversa la sala da ballo, infine scende al piano inferiore per incontrare il misterioso Mr. Meacham. I due iniziano a parlare alternando discorsi sugli equilibri geopolitici mondiali (sono entrambi agenti del servizio segreto britannico) con improvvise incursioni sulle rispettive relazioni sentimentali. Il software Severus è stato sottratto al Secret Intelligence Service e potrebbe presto essere venduto a potenze nemiche provocando migliaia di vittime: “Ci sono cinque possibili traditori in questa lista di nomi, uno è quello di tua moglie Kathryn”, dice Meacham. George (Michael Fassbender) non sembra scosso dalla notizia e chiede una settimana di tempo per risolvere il caso e scongiurare il pericolo. Poi, cambia bruscamente argomento e chiede informazioni sul matrimonio in crisi di Meacham: “Non va bene, vorrei non fosse così facile tradire”, risponde l’uomo. Fermiamoci qui: in una manciata di inquadrature Soderbergh riesce a disegnare solide back-story per i suoi personaggi (in crisi esistenziale) e imminenti sfide globali per il nostro film (con un solido McGuffin hollywoodiano). Black Bag è un film sui tradimenti privati che mettono in pericolo il mondo, impastando con stupefacente economia visiva e narrativa il dramma intimista alla Mike Nichols con il thriller/noir alla Alfred Hitchcock.

Dopo titoli di testa, infatti, comincia una sofisticata sciarada fatta di inviti a cena e sieri della verità, tradimenti reali e simulati, poligrafi da disinnescare e satelliti da reindirizzare, il tutto per scoprire chi sta facendo “il doppio gioco” in un mondo (il nostro) dove le informazioni sono il bene più prezioso. Insomma, una sorta di Sesso, bugie e satelliti (al posto dei videotape) che rilancia molte delle ossessioni soderberghiane: da un lato, lo sfumato confine tra realtà e messa in scena nella nostra cultura visuale; dall’altro, l’insopprimibile verità degli sguardi al di là di ogni nuovo dispositivo di visione (o di autorappresentazione).

Facciamo un passo indietro. Chi sono George e Kathryn (la sospetta traditrice)? Sono due agenti operativi, sono innamorati, ma hanno tante “black bag” (missioni top secret). Il nome George è un esplicito (e dichiarato) omaggio al personaggio di Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf? (Mike Nichols, 1966), mentre il suo abbigliamento elegante e i suoi grandi occhiali neri sono ispirati alla spia Harry Palmer/Michael Caine in Ipcress (Sidney J. Furie, 1965). Pertanto: il radicale dramma borghese sull’incomunicabilità – proprio come nel film di Nichols i due coniugi inscenano un pericoloso gioco psicologico che ha bisogno di occhi estranei per rivelare intime verità – viene istantaneamente fuso alla sofisticata spy story anni sessanta consegnando a George un solido retroterra referenziale. Lo stesso retroterra che per il personaggio di Kathryn (Cate Blanchett) fa riferimento all’iconografia noir anni quaranta di dive come Veronica Lake o Ingrid Bergman. La donna entra in scena in una delle rarissime soggettive di George e pronuncia la sua prima frase rivolgendosi a noi spettatori: “Riesco a sentire quando mi guardi”. Insomma, proprio come in Kimi (2022, prima collaborazione di Soderbergh con lo sceneggiatore David Koepp), gli stilemi più riconoscibili del genere hollywoodiano classico sono rifunzionalizzati in una meta-riflessione sul ruolo del cinema nel XXI secolo (riflessione che il regista e lo sceneggiatore porteranno avanti con ben più esplicito spessore teorico nell’imminente Presence).

Tiriamo le somme: in questo Chi ha paura di Virginia Woolf? che incontra Notorius, Soderbergh limita al massimo gli inseguimenti e gli scontri fisici da thriller spionistico confinandoli in fredde geolocalizzazioni satellitari o in fulminei attacchi di droni dal cielo. Black Bag diventa così un dramma da camera messo tra parentesi in due lunghissime sequenze a tavola nell’appartamento di George e Kathryn. Due magnifiche cene dove gli slittamenti continui del punto di vista mettono in scacco le manipolazioni reciproche dei sei commensali/agenti segreti. Soderbergh continua testardamente a ragionare su come liberare lo sguardo da ogni regime di sorveglianza concependo il cinema come il medium adatto per un’etica della forma. Le immagini cinematografiche diventano nuovamente gli effetti collaterali della nostra infosfera globale attestando improvvisi scarti veritativi nell’era delle post-verità: “Credo di essere stato incastrato”, dice George; “anch’io”, risponde Kathryn.

A tal proposito c’è una piccola sequenza, apparentemente secondaria, che diventa il cuore teorico e sentimentale del film: George trova tra i rifiuti di Kathryn il biglietto di un movie theater dove poche ore prima la donna avrebbe visto un horror (Dark Windows) mentendo sui suoi spostamenti. Un errore di Kathryn o l’ennesima falsa pista seminata dal reale traditore? L’unico modo per fugare ogni sospetto è affidarsi al cinema come mediatore di emozioni autentiche: (ri)vedere insieme Dark Windows, allora, significa (ri)concepire il grande schermo come definitiva “macchina della verità”. I due coniugi sono seduti in sala: Kathryn guarda il film, George guarda Kathryn. Lei sobbalza spaventata a ogni sequenza e lui non ha più dubbi. Crede alle verità del grande schermo e crede nell’innocenza della moglie al di là di ogni simulazione algoritmica o software di intelligenza artificiale. Insomma, sono ancora le verità visibili che balenano nell’originario incontro tra immagine cinematografica e sguardo spettatoriale a interessare Steven Soderbergh. Black Bag è l’ennesimo tassello di un sempre più lucido percorso autoriale capace di interrogare, rimediare e ripensare in ogni forma le immagini del XXI secolo.

Black Bag – Doppio gioco. Regia: Steven Soderbergh; sceneggiatura: David Koepp; interpreti: Cate Blanchett, Michael Fassbender, Marisa Abela, Tom Burke, Naomie Harris, Regé-Jean Page, Pierce Brosnan, Gustaf Skarsgård, Kae Alexander, Ambika Mod; produzione: Casey Silver Productions; distribuzione: Universal Pictures, Focus Features; origine: Stati Uniti; durata: 94’; anno: 2025.

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