Sullo sfondo di un cielo nuvoloso, le lettere in rosa – “Big Little Lies” – sovrastano i volti di tre donne colte in un’espressione di mistero. Limitandoci all’immagine “di copertina” più diffusa della serie tv, potremmo pensare di considerarla una variante di Desperate Housewives (2004-2012), Sex and the City (1998-2004) o la versione adulta di Girls (2012-2017). In ogni caso un’altra serie incentrata sulle nevrosi, spesso esilaranti, di un gruppo di amiche bianche e benestanti. L’unica differenza sembrerebbe il set: non un trilocale di New York ma bellissime ville a Monterey, cittadina affacciata sull’oceano della California.

Big Little Lies (2017) prodotta da HBO e uscita finora con una prima stagione, sembrerebbe dunque giocare – sin da questa prima immagine – un piccolo tiro mancino al pubblico, anticipando così il discorso ben più complesso che affronterà in sette episodi: l’importanza dell’apparenza e il meccanismo perverso della sua ricaduta sulla vita emotiva e relazionale. Il primo episodio interrompe infatti quasi brutalmente la nostra breve passeggiata inferenziale. Prima di tutto c’è un omicidio e questo basta a polverizzare ogni aspettativa su una commedia, trasferendo la serie in un orizzonte da crime drama. Inoltre le protagoniste, oltre a essere madri, non sono tutte bianche e ricche ma soprattutto sono in conflitto praticamente con chiunque attraversi le loro vite e con loro stesse, con conseguenze che scopriremo essere legate al delitto. La serie è costruita in modo tale da stratificare una serie di misteri: dopo l’assassinio (lo spettatore dovrà attendere gli ultimi minuti del finale della serie per conoscere l’identità e dunque il sesso della vittima), nei successivi episodi vengono narrati gli antefatti, tramite flashback, incentrati sulle donne.

Se l’omicidio è già un atto di estrema ferocia, ben presto la serie ci abitua ad altri e molteplici livelli di brutalità a partire dai testimoni ascoltati dalla polizia. È una premessa importante che non a caso inaugura la narrazione e determinerà la temperatura emotiva di Big Little Lies. A parlare sono alcuni abitanti di Monterey che non risparmiano pettegolezzi di varia entità.

La ferocia è abbastanza impressionante e il loro bersaglio è un gruppo ristretto di donne della città, le protagoniste. Da qui impariamo che nella cittadina l’aggressione e la calunnia sono quotidiani e che spesso le vittime non reagiscono per paura di non essere capite o di venire isolate, o sono minacciate: è il caso dell’aggressione a scuola della figlia di Renata Kline, interpretata da Laura Dern, una delle donne centrali della serie e unica madre in carriera del gruppo. È Renata a mettere in moto la trama, scatenando le liti durante il primo giorno di scuola quando le protagoniste si conoscono: Jane Chapman (Shailene Woodley), giovane madre un po’ schiva e senza lavoro, si è appena trasferita a Monterey dopo altri traslochi. Suo figlio Ziggy è nato da uno stupro. Il primo giorno conosce casualmente Madeline Mackenzie (Reese Witherspoon), altra madre molto popolare e impegnata nella vita culturale della città, infelice del proprio matrimonio e in ostinato con conflitto con l’ex marito che l’ha lasciata per la più giovane e attraente Bonnie Carlson (Zoë Kravitz); tradisce inoltre il marito con un uomo di cui forse è innamorata. Madeline presenta a Jane la sua migliore amica Celeste Wright (Nicole Kidman), attraente ex avvocata che ha scelto di lasciare una carriera in ascesa per dedicarsi ai suoi due gemelli e il marito, Perry Wright (Alexander Skarsgård). Nessuno immagina che il sesso tra di loro scaturisca da uno scontro fisico e che a predominare siano le percosse di Perry contro Celeste.

In questo primo scorcio è già tangibile la complessità dei livelli e dei rapporti coinvolti negli episodi. Non solo conosciamo il mondo personale e familiare di Jane, Madeline e Celeste, ma anche quelli di Renata e Bonnie, anche lei come Renata considerata una rivale. Entrambe diventeranno amiche delle prime. Tra i personaggi più eccentrici merita senz’altro una menzione Chloe, figlia minore di Madeline. Chloe è sorprendentemente matura per la sua età soprattutto per i suoi gusti musicali che, unitamente alla sua buffa presenza (ha cinque anni e un iPod), sifda lo stereotipo della figlia viziata e pur mostrando insofferenza soprattutto per sua madre, impersona l’unico bagliore utopico nell’inferno circoscritto e incandescente di Monterey.

Le esistenze delle protagoniste poggiano su faticose e fragili strategie di insabbiamento e rimozione dei segreti più ingombranti così che Big Little Lies si dimostra un complesso gioco di specchi in cui lo spettatore, incastrato come loro tra trasparenze e opacità – la vita condotta alla luce del sole e la vita nascosta dalle finestre delle ville, replicate dall’abitacolo delle loro auto – è portato a problematizzare ciò che gli specchi mostrano e soprattutto quello che presume di essere certo di vedere. La storia dunque, tratta dall’omonimo romanzo di Liane Moriarty, si adatta perfettamente alla struttura seriale e alle sue potenzialità dal momento che questa si presta con maggiore efficacia (lo ha già mostrato ad esempio The Affair) alle strategie di multi-focalizzazione: viviamo le vicende attraverso i diversi punti di vista di chi è coinvolto. In tal modo non solo siamo immersi maggiormente in un universo emotivo ma esploriamo le responsabilità e la complessità dei ruoli assunti da ciascuno.

Lo spettatore viene sfidato e messo in guardia sulla trappola del pregiudizio. Ma c’è un altro strumento, forse insospettabile, utilizzato per l’indagine del personaggio in Big Little Lies: i suoi ambienti privati. I momenti più salienti hanno luogo infatti nelle abitazioni che diventano una sorta di estensione del mondo interiore delle donne, le quali, nei momenti di maggiore crisi, vengono inquadrate assorte di fronte alle enormi finestre.

Per Bachelard la casa è «il nostro angolo di mondo, è come è stato spesso ripetuto, il nostro primo universo. Essa è davvero un cosmo, nella piena accezione del termine» (Bachelard 2006, p. 32). La serie sembra prendere questa dichiarazione alla lettera ma, al di là di facili e stereotipate associazioni tra l’universo femminile e la casa, l’aspetto qui interessante è il legame tra il personaggio travagliato e la propria abitazione come doppione privilegiato della sua interiorità emotiva. La casa di Celeste ad esempio è estremamente elegante e ordinata pur avendo due figli piccoli. D’altronde Celeste ha anche molta cura per i propri vestiti: sceglie quelli che nascondono meglio i segni delle percosse e il suo atteggiamento minimizza, nascondendola perfino a se stessa, la pericolosità di Perry. L’abitazione di Madeline è invece più caotica e trafficata, un’allusione scenografica al suo disordine emotivo e alla sua incapacità di creare armonia tra lei e le figlie, o tra sé e il marito.

Ancora Bachelard: «Se ci venisse chiesto quale sia il più prezioso effetto bene co della casa, risponderemmo che essa fornisce un riparo alla rêverie, protegge il sognatore, ci consente di sognare in pace» (Bachelard 2006, p. 34). Purtroppo qui la serie lo smentisce: il presunto riparo da tensioni e maschere sociali è anche il luogo della violenza (è il caso di Celeste) o dell’incubo della violenza (per Jane) mostrandosi in tutta la sua stratificazione: un omologo spaziale perfetto, appunto, della mente di chi lo abita. Inoltre, la contemplazione dell’oceano segue questi momenti: i personaggi sono in attesa, quasi apatici, scrutano senza sapere cosa aspettarsi. In una scena del secondo episodio Madeline è insieme a Chloe davanti alla finestra. Madeline si chiede ad alta voce cosa ci sia sotto la superficie dell’oceano e dopo che Chloe ipotizza dei mostri, lei risponde che forse sì, potrebbero essercene: è un grande ignoto.

Big Little Lies è un racconto molto efficace e non scontato delle dinamiche sociali, tra cui quella del capro espiatorio. Dapprima sui figli, il focus come detto passa ben presto sulle madri ma non è la sola serie in cui accade. Donne al centro di un assedio feroce, prima sociale poi fisico, sono l’oggetto principale di diverse serie tv recenti in cui le protagoniste, in conflitto tra loro, diventano il capro espiatorio perfetto all’interno di un più ampio orizzonte manipolatorio ordito da uomini. Si vedano ad esempio Feud o The Handmaid’s Tale (entrambe del 2017) che con differenti livelli di drammaticità mettono in scena questo meccanismo. Nell’ambito degli studi sull’utopia, Sargent chiama capri espiatori (Baccolini, Moylan 2003) i membri di una società che pagano il prezzo più alto – esclusione, restrizione dei propri diritti fondamentali, povertà – affinché il resto possa vivere in prosperità e pace. Sargent definisce queste società “utopie difettose”, utopie quindi tali solo in apparenza perché il bene di molti si basa sul male inflitto ad altri (in The Handmaid’s Tale, il padrone di Offred lo ammette: “Migliore non significa mai migliore per tutti”). Tuttavia in Big Little Lies si mostra anche la possibilità di rovesciare questi meccanismi. C’è una sorta di epifania nel finale, pochi secondi prima dell’uccisione di Perry, l’uomo violento, in cui le donne, riconoscendosi come vittime di uno stesso aguzzino smettono di essere tali e si coalizzano, intraprendendo una rieducazione istantanea. La rivalità evolve in solidarietà senza bisogno di uno scambio di parole, per istinto, e quando viene messa alla prova durante l’interrogatorio da parte della polizia, si mostra unanime e salda. La scena iniziale – la premessa che l’odio muove la comunità – viene ribaltata.

L’ultima scena della serie è ambientata davanti all’oceano, in spiaggia. È la prima volta che le protagoniste si trovano insieme proprio lì, felici con i rispettivi figli e figlie. Il delitto è già alle spalle, il presente è dove possono raggiungersi complici e libere nel luogo che rappresentava l’insondabile. Si è accennato infatti all’oceano come custode di segreti, la cui superficie nasconde e non tradisce ciò che vi è al di sotto: un ritratto calzante per Perry, un uomo apparentemente affettuoso capace però di gesti violenti, e non a caso era lungo l’oceano che Jane andava a correre alimentando l’angoscia che credeva di estinguere: le scene dello stupro che le ritornano alla mente amplificate da incubi deliranti in cui scopre l’identità dello stupratore e finalmente lo uccide. Ora invece l’oceano si è unito a loro, alla loro complicità e custodisce il loro piccolo grande segreto. La paura dell’ignoto è rimandata.

Riferimenti bibliografici
G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006.
L.T. Sargent, The Problem of the “Flawed Utopia” in R. Baccolini, T. Moylan, a cura di, A Note on the Costs of Eutopia, Dark Horizons. Science Fiction and the Dystopian Imagination, Routledge, new York-London 2003.

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