Berlino
Michael Lesch in Heimat (Reitz, 1984).

Ma vieni qua, vieni qua che voglio farti vedere una cosa.
Guarda la grande puttana, la puttana Babilonia che siede presso il fiume.
Tu vedi una donna seduta su un animale di colore scarlatto.
La donna è carica di nomi di tutti i vizi, ha sette teste e dieci corna.
È rivestita di porpora e di scarlatto, è coperta d’oro e
pietre preziose e di perle e ha nella mano un calice d’oro.
E sulla fronte porta scritto un nome, un segreto:
la grande Babilonia, la madre di tutti gli orrori sulla terra.
La donna ha bevuto il sangue di tutti i santi.
La donna è ebbra del sangue dei santi.

(Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin)

Le ruote motrici di un convoglio ferroviario incedono rapide e con ritmo costante, sicure lungo binari invisibili. Il tempo della storia è in corso di stampa, letteralmente sovrimpresso: sullo schermo, assieme ai titoli di testa, si susseguono immagini in bianco e nero di un’epoca le cui fogge si mostrano attraverso fotografie che ritraggono scene di vita e miseria quotidiana, manifestazioni e scontri di piazza, prime pagine di quotidiani, manifesti che pubblicizzano serate di cabaret, insegne, illustrazioni erotiche e satiriche. Mentre il suono del treno si innerva lungo questi frammenti dello spazio urbano, all’interno della colonna sonora emerge, attraverso il gracchiare di un grammofono, la voce possente del grande tenore austriaco Richard Tauber che canta Freunde, das Leben ist lebenswert, dalla commedia musicale Giuditta (Franz Lehár, 1934). L’aria accompagna lo spettatore anche durante la scena iniziale. Se, come canta Tauber, vale la pena di assaporare la vita, allora la macchina da presa, dopo aver compiuto dei movimenti esplorativi non potrà che soffermarsi sul volto che emerge dal buio di Franz Biberkopf, e seguirne l’uscita dalla prigione di Tegel. Il cancello è la soglia oltre la quale gli stimoli si moltiplicano e si affastellano: lo sferragliare delle auto lungo la strada, il metallo che sfrega l’asfalto, lo stridere dei clacson e lo scalpitio di mille passanti colpiscono i sensi di Franz che non ha altra scelta se non quella di tapparsi le orecchie e contorcersi in una smorfia sofferente, segno tangibile della sua inadeguatezza a quella costellazione di stimoli in cui ha luogo la percezione urbana. È questo l’inizio del lungo calvario – non a caso il titolo dell’episodio è Die Strafe beginnt – che porterà Franz alla distruzione e, al contempo, l’avvisaglia di un mondo, Berlino e la Germania tutta, che si trascinerà nel baratro nazista.

Ambientata nel 1928, suddivisa in tredici puntate più un epilogo, Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder è la trasposizione, successiva a quella realizzata nel 1931 da Piel Jutzi, dell’omonimo romanzo di Alfred Döblin. Quello analizzato nelle righe precedenti è il montaggio tra documenti e storia narrata che compone la sequenza di apertura del primo episodio della miniserie televisiva: in essa prende avvio quel dramma percettivo che accompagnerà il rapporto tra il protagonista e la città. La Berlino dell’epoca non può essere restituita attraverso un’immagine unitaria e prospettica ma è un paesaggio frantumato nel quale «trovano espressione senza nemmeno averne avuta l’intenzione i suoi contrasti, la sua crudezza, la sua apertura, le sue contiguità, il suo splendore» (Kracauer 2004, p. 57). Franz si scontra continuamente contro le forze che attraversano questo paesaggio. Dallo spazio aperto e vibrante ma anche crudele di Alexanderplatz fino a quello buio e isolato della portineria di una fabbrica, la sua «fame di destino» (Benjamin 2002, p. 163), la sua epopea, si esauriranno con l’avanzare del racconto e l’incedere delle disavventure, delineando così «una metamorfosi eroica della coscienza borghese» (ibidem).

Ecco un altro incipit. In esso balena il tentativo di riscatto da parte di una vita, ossessionata dai fantasmi del passato, che reclama, forse invano, il suo posto nella città indemoniata. «Non cerchi di dare una struttura ai suoi pensieri, li lasci semplicemente fluire e respiri molto profondamente». Gli occhi si aprono ma lo sguardo in soggettiva di Gereon Rath (Volker Bruch) è offuscato dalla mano del medico che sta per ipnotizzarlo. Il respiro del commissario è profondo e regolare, segue le indicazioni della voce che lo accompagnerà all’origine delle paure che lo tormentano. Quello che lo spettatore vede e il personaggio rivive non è un flashback, classico espediente narrativo per dare inizio al racconto. Al contrario la storia sembra incepparsi, alcuni eventi riaffiorano a balzi e in forme discontinue. I traumi e le immagini riappaiono ­– per poi insediarsi temporaneamente ma con una certa frequenza nell’intero flusso narrativo – per frammenti, si riavvolgono e si confondono fino a raggiungere il punto di inizio: una chiesa a Colonia, la chiamata alle armi, un matrimonio, una morte, un amore impossibile.

Già prima dell’arrivo a Berlino, Gereon è ossessionato dai fantasmi della Grande guerra, è corroso dal rimorso per non essere riuscito a trarre in salvo il fratello dal massacro delle trincee nella Francia settentrionale e dal senso di colpa causato dalla relazione segreta con la moglie di quest’ultimo. Ufficialmente, la sua “trasferta” è giustificata da un’indagine per recuperare un filmato in cui il borgomastro di Colonia, Konrad Adenauer, è ripreso in atti sadomaso. La ricerca dei frammenti di questa pellicola lo condurranno fin dentro al ventre della metropoli. Il suo pulsare cosmopolita e abietto lo inghiottirà in un vortice fatto di ricatti e operazioni di polizia contro la pornografia illegale, viaggi allucinati nei locali notturni, manifestazioni socialiste sedate con la violenza e follie nazionaliste perpetrate dalle frange più estreme dell’esercito per vendicare l’onore della patria e riportarla al suo splendore prebellico, operazioni mafiose e cospirazioni ordite dai russi trotzkisti per far arrivare in Europa un treno pieno d’oro. Dopo aver attraversato i gangli di questa frenesia, il commissario della buoncostume ripiomberà nella sequenza iniziale, prigioniero di un passato che non passa, vittima di un evento traumatico che segna il suo stare al mondo.

Come Berlin Alexanderplatz, anche la prima stagione della serie tedesca Babylon Berlin (2017), ideata da Henk Handloegten, Tom Tykwer, Achim von Borries e ispirata al primo capitolo (Il pesce bagnato) della pentalogìa di Volker Kutscher, è ambientata nel 1929, durante la Repubblica di Weimar. Come Franz Biberkopf, anche Gereon Rath subisce gli shock percettivi di un’epoca in cui, al moltiplicarsi delle immagini tecnicamente riproducibili, si affiancano le conseguenze prodotte dal primo conflitto mondiale sulla quotidianità. Entrambi faticano a districarsi lungo una serie ininterrotta di stimoli e impressioni violente, incapaci di esercitare quelle forme di percezione nella distrazione (Benjamin 2012) che per le masse metropolitane costituiscono un adeguamento all’intensificazione della vita nervosa (Simmel 1995).

Il protagonista della serie del 2017 condivide il suo destino di reduce con Paul Simon, uno dei personaggi di Heimat (1984), miniserie in undici episodi diretta da Edgar Reitz, che, al ritorno dalla guerra, smette misteriosamente di parlare. Nell’opera-monumento di uno dei padri del Nuovo cinema tedesco, la piccola storia della famiglia Simon e della comunità di Schabbach si dipana lungo la grande storia del secolo scorso, dalla fine della Prima guerra mondiale fino agli anni ottanta. Il mutismo di Paul e la scelta di abbandonare la terra natia per emigrare negli Stati Uniti restituiscono quell’atrofia dell’esperienza che caratterizza la narrazione dei reduci (Jedlowski 2009). L’interruzione della capacità di fare esperienza e raccontarsi colpisce anche il commissario di Babylon Berlin che soffre di quella misteriosa malattia dei nervi che affligge molti dei sopravvissuti alle trincee, un tremolio che lo attraversa e gli fa perdere il controllo dei propri arti. Il rimedio per nascondere questa patologia è sedarla con l’eroina e Gereon ne abusa, fino a stordirsi e perdere coscienza di sé.

È attraverso la detection che i personaggi e gli spettatori di Babylon Berlin possono accedere ai recessi della città, addentrandosi in un magma di pulsioni distruttive e liberazione dei costumi. Il commissario scopre, a partire dai fotogrammi sbiaditi di alcuni filmati amatoriali a sfondo sessuale, gli indizi di un complotto, in cui la criminalità si intreccia con i vertici politici e militari, che segnerà per sempre il destino dell’intera nazione. Parallelamente alle indagini ufficiali, si muove la scaltra coprotagonista Charlotte Ritter. Dattilografa presso il “Castello rosso”, il quartier generale della polizia ad Alexanderplatz, viene pagata un marco all’ora per compilare un archivio fotografico grazie al quale individuare somiglianze tra le diverse scene del crimine e catalogare le brutalità omicide. Di notte Charlotte è un’assidua frequentatrice dei locali alla moda dove, per sbarcare il lunario e sostenere l’economia familiare, è disposta a vendere il suo corpo e ad usarlo per dominare i suoi amanti. Da Fassbinder a Bob Fosse, con il film del 1972, fino a Babylon Berlin, i cabaret sono luogo privilegiato per comprendere umori, tensioni,  euforie e illusioni di una città-labirinto.

Proprio uno dei cabaret, il frequentatissimo Moka Efti, centro nevralgico della vita berlinese e di loschi traffici, è il set di una delle sequenze più affascinanti e impressionanti dell’intera serie. Nel finale del primo episodio, accompagnata ritmo incalzante della batteria, sale sul palco Swetlana, cantante e spia sovietica doppiogiochista, per interpretare il brano, appositamente scritto per la serie, Zu Asche, zu Staub. Swetlana è vestita in stile garçonne, indossa una tuba e dei guanti, il corpo androgino, il viso è attraversato da baffi sottili. Entra in scena coperta da un impermeabile di pelle nera, accolta dagli applausi dalla folla che di lì a qualche anno si trasformerà in massa pronta ad acclamare il suo führer nella piazze della città. La platea, ipnotizzata dalla musica, si muove come un corpo unico i cui gesti imitano quelli della cantante sul palco. La canzone è un inno alla cenere e alla polvere: lì dove la luce muore è possibile trovare l’immortalità. Swetlana alza l’indice al cielo e poi scompare in una nuvola di fumo lasciando il buio dietro di sé, presagio di una notte che non tarderà ad avvolgere l’intero paese.

Berlino è una città che il racconto televisivo seriale non riesce a immaginare al di fuori del Novecento. In ambito statunitense, la prima stagione di Counterpart (2017), la serie ideata da Justin Marks, è un’ucronia in cui il futuro è costruito a partire da un differente andamento del passato. Dopo la caduta del muro e in seguito ad alcuni esperimenti condotti in piena Guerra fredda, Berlino diventa la porta di accesso a un mondo parallelo. Da città divisa a interfaccia verso un altrove in cui donne e uomini hanno una vita alternativa. Se, Berlin Alexanderplatz e Babylon Berlin sono due grandi produzioni tedesche che, seppur distanti nel tempo, hanno raccontato questa città come il luogo di un’esperienza sensoriale che eccede i soggetti che la attraversano, in Counterpart sono le vite stesse a raddoppiarsi: le Berlino sono due, i personaggi sono doppi, i conflitti a loro volta duplicati. Howard Silk, il protagonista della serie, è un passatore tra le due dimensioni che tenta di cambiare le sorti della sua esistenza divisa a metà.

Franz Biberkopf, Paul Simon e Gereon Rath sono istanze narrative che esemplificano le difficoltà del soggetto moderno ad esporsi agli ambienti mediali che li circondano. Si tratta di personaggi che non riescono a sfruttare a pieno le potenzialità di ri-mediazione dell’esperienza offerte dal racconto seriale, che, a sua volta, fonda la sua tenuta proprio su questo scacco. Fassbinder e, a più di trent’anni di distanza, gli sceneggiatori di Babylon Berlin piegano le strutture del dispositivo seriale per «duplicare il tempo della Storia nel tempo della rappresentazione» (Eugeni e Farinotti 2014, p. 192), per dilatare e far riemergere quel campo di tensioni che attraversa Berlino e riveste il passato traumatico della Germania e dell’Europa durante il Novecento.

 Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, La crisi del romanzo. A proposito di Berlin Alexanderplatz di Döblin”, in Opere complete, vol. IV. Scritti 1930-1931), a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser ed E. Ganni, Einaudi, Torino 2002, pp. 159-164.
Id., “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Prima stesura dattiloscritta (1935-36)”, in Walter Benjamin. Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 17-49.
R. Eugeni, L. Farinotti, “La catastrofe del passato. Identità tedesca e forme del trauma nel cinema di R. W. Fassbinder”, in Nuovo cinema tedesco (Junger/Neuer Deutscher film). 17 studi, a cura di L. Venzi, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2014, pp. 189-211.
P. Jedlowski, Il racconto come dimora: “Heimat” e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
S. Kracauer, Strade a Berlino e altrove, Pendragon, Bologna 2004.
G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 1995.

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