Maurizio Grande e Carmelo Bene sono state figure uniche nel panorama culturale italiano del Novecento, accomunate da una tensione verso il disfacimento delle forme, un’ansia di azzeramento e una necessità di riscrivere i codici tradizionali del teatro, del cinema e del linguaggio. Se Bene è stato il creatore di una pratica scenica in grado di sottrarsi alla rappresentazione per divenire esperienza pura, Grande ne è stato l’interprete critico più penetrante, capace di leggere nell’opera dell’artista un progetto radicale di decostruzione della soggettività e del significato: in questo senso l’«oggetto “incontrato”», Carmelo Bene, ha messo in tensione «la tenuta concettuale e la rigidità del metodo» (De Gaetano 1999, pp. 14-15) di Grande, nelle sue prime intuizioni semiologiche. Un sodalizio intellettuale, quello tra Grande e Bene durato per più di un decennio, che si è fondato su un dialogo incessante, dove l’analisi teorica si è intrecciata (nelle interviste, in documentari come Il principe cestinato del 1972, nella scrittura e sulla scena) all’atto performativo, producendo una riflessione che ha portato la critica direttamente all’interno del gesto e della creazione.
Nel 1987, in un’intervista alla RAI in occasione di un invito a Bene a “recitare” i Canti di Leopardi, Grande ha definito il gesto di Bene come una «presenza barbara». Con questa espressione, Grande non poteva che sottolineare la capacità di Bene di scardinare le convenzioni della scena per restituire al teatro in particolare, e al linguaggio in generale, una forza originaria, primitiva, concrezione di corpo, suono e materia. La presenza barbara, nelle parole di Grande, non era tuttavia un atto di regressione, ma un gesto di ribellione estetica, un modo cioè di sottrarsi alla civiltà della rappresentazione per abitare lo spazio libero della phonè, del puro piano sonoro. «Sottrarre la poesia alla rappresentazione verbale», dice Grande in Casa Leopardi, in dialogo con Bene, «e restituirla all’oralità, a quel tanto di corpo presente ogni volta che ci imbattiamo in un verso poetico». Operazione che non può essere ridotta, né solo riferirsi, al gesto teatrale, ma che si prolunga in una critica all’intera tradizione occidentale, colpevole di aver ridotto il linguaggio a mero strumento di comunicazione, dimenticandone l’insorgenza come evento sonoro.
Per comprendere la profondità del rapporto tra Grande e Bene, così come l’insorgenza della phonè, è necessario partire dal concetto di “sottrazione,” un termine che ricorre frequentemente nelle riflessioni di entrambi. La sottrazione, per Grande, è il gesto che permette a Bene di liberare il teatro dalla rappresentazione, trasformando ogni elemento scenico in una presenza autonoma. L’attore non è più il veicolo di un significato, ma una macchina attoriale che si dissolve nella scena:
L’idea (e la prassi) di “macchina attoriale” messa in atto da Carmelo Bene è, pertanto, il superamento e il rovesciamento dell’idea artaudiana di “evento”, dal momento che l’attore-macchina celebra la fine di ogni metafisica del soggetto e dello spettacolo, impugnando “la scrittura” come fine delle differenze e della tonalità che lo riassume, per giungere all’inorganico quietarsi di ogni forma e di ogni senso (Grande 1985, p. 2).
Come osserva Grande, sempre in Casa Leopardi, «Carmelo Bene non è un attore che riferisce, un attore che ha a che fare con i significati, con il senso delle frasi, ma lavora in senso antifrastico, e in senso barbaro proprio dal punto di vista della presenza». Infatti, proprio non essendo Bene un «attore che riferisce qualcosa che ha imparato a memoria, che finge d’essere altri», ecco che vediamo con lui tramontare «il mondo come volontà e rappresentazione» (Bene 2022). Ci chiediamo allora cosa albeggi dietro le nebbie della rappresentazione, e l’unica risposta possibile sembra essere quella che darà lo stesso Bene: «Il nulla… che non è rappresentabile» (ibidem). Un nulla che non può, tuttavia, essere ridotto ad un vuoto, ma che si configura come il luogo di un gesto creativo, di una materia vibrante che resiste contro l’omologazione della parola e della scena.
Un esempio emblematico di questa pratica è Lorenzaccio, una riscrittura di Alfred de Musset che Bene descrive come «uno studio sulla impossibile paternità e coerenza di qualsivoglia azione che nell’atto smarrisce il proprio intento» (Bene 2023) e che Grande rilancia in questa maniera: «L’azione appartiene alla serie che nega l’accadere, anzi, ne chiude il profilo e la dinamicità in un arco precostituito di possibili che dovevano prendere una direzione o l’altra, questa o quella piega» (Grande 1986, p. 89). In questo lavoro, il personaggio di Lorenzaccio non è un soggetto riconoscibile, né eroe né antieroe, ma una figura che si dissolve nel nulla della scena o, meglio, un non-soggetto che si sottrae a ogni principium individuationis, fosse anche quello dell’azione che chiude e vincola i possibili. Egli è allora puro gesto espressivo, perciò “nulla” se considerato dalla prospettiva di un individuo ridotto a se stesso. Per Grande, questa operazione è il cuore del teatro di Bene: una scena che esiste non per rappresentare ma per presentare, non per raccontare ma per far risuonare il nulla. L’idea, cioè, di un nulla come presenza, centrale anche nel concetto di “circuito barocco,” che Grande utilizza per descrivere il teatro di Bene come un flusso continuo di stimoli sensoriali che disorientano lo spettatore e lo spingono a confrontarsi con un reale non raccoglibile nelle maglie di un senso, di un mondo necessitato dalle sue configurazioni banalmente attuali.
Lorenzaccio, da questo punto di vista, si delinea come una lotta per il linguaggio tra le poetiche di Bene e di Grande:
Si può dire che avevo già consumato per fede tutta un’esperienza teatrale che non ebbi mai bisogno di praticare per l’appunto. La mia prassi non ebbe un cominciamento, anch’essa. Cominciò in un quarto momento, quinto, sesto, chissà dove… chissà dove cominciò. Per dirla tutta, il mio teatro cominciò là dove già l’avevo scontato, là dove non c’era più nulla da dire, ma da essere detti (Bene 2023).
Se Bene, infatti, destrutturando il testo originale, e con esso ogni forma di cominciamento e di chiusura, ha trasformato la parola in puro suono, Grande ha cercato di tradurre questa operazione in un linguaggio critico capace di coglierne la radicalità, che per certi versi prolungasse il gesto beniano: un rifiuto della chiusura, della completezza, così come dell’origine, che ha spinto Grande a esplorare il teatro di Bene come un laboratorio di possibilità, un luogo in cui il linguaggio si dissolve per rinascere come vibrazione e suono.
Il concetto di “circuito barocco” è uno degli strumenti critici più potenti elaborati da Grande per descrivere l’opera di Bene. Questo circuito, inteso come un flusso di intensità sensoriali/sonore, non si sviluppa in maniera lineare, ma si avvolge su se stesso, creando una spirale in cui il significato non è mai definitivo. Per Grande, il barocco di Bene non è solo uno stile, ma una metodologia artistica che mette in crisi ogni idea di rappresentazione:
Carmelo Bene giunge finanche alla possibilità di ristrutturare, ricostruire diversamente il piano dei discorsi possibili attorno a certi contenuti-senso. O, addirittura, per meglio dire, riesce a produrre certi «contenuti» e certe «sostanze» del discorso attraverso lo smontare e il rimontare i meccanismi e i caratteri del discorso stesso, e dunque l’area coperta dalle sue possibilità, l’area cioè del dicibile e del rappresentabile (Grande 1973a, p. 30).
Una condizione quella beniana, per dirla con Cappabianca, in cui «tutto si mescola, sminuzzato in piccoli pezzi» e nella quale «non siamo di fronte a una composizione, ma a una de-composizione. Bene è l’acido corrosivo che tutto sgretola, a cominciare da se stesso» (Cappabianca 2012, p. 39). Così, l’idea di una dimensione barocca è perfettamente adatta al teatro di Bene, dove la scena diventa un labirinto di immagini e suoni che sfidano lo spettatore, costringendolo a rinunciare alla logica per immergersi in un’esperienza che è puro eccesso di percezione.
Un esempio paradigmatico di questa estetica è Nostra Signora dei Turchi, un’operazione in cui il teatro e il cinema di Bene raggiungono il loro apice sperimentale. Grande interpreta questo lavoro come una sintesi del progetto beniano, come la creazione di un mondo che smette di essere uno:
Il mondo del non-possibile che si fa corpo e realtà nelle mani dell’attore/autore, Poeta (nel senso primigenio del termine). “Colui che fa” /di se stesso il mezzo per creare (dal sogno, dall’illusione, dalla miseria, dall’intelligenza) tanti mondi possibili, tante situazioni esprimenti la oggettiva contropartita del senso e dell’immaginazione (Grande 1969, p. 258).
Qui il personaggio non esiste più come identità: esso diviene traccia o ombra che si muove attraverso la scena senza mai fissarsi in una forma ultima. Questo processo di dissoluzione è ciò che Grande definisce «la sottrazione del soggetto» (Grande 1973c), vale a dire un’operazione che va oltre la decostruzione per abbracciare l’assenza del sostrato individuante come principio creativo. Solo nel nulla – che non è niente, ma luogo, situazione nella quale il gesto dell’attore-creatore si produce – può darsi creazione.
Creazione che passa dalla sottrazione anche come atto politico, gesto di resistenza contro le convenzioni del teatro borghese e del cinema industriale. Non limitandosi a distruggere le fila della narrazione, Bene demolisce, contemporaneamente, anche l’idea di spettatore, producendo una metamorfosi nel pubblico, ora testimone di un’esperienza che non può essere semplicemente consumata, compresa in tutta la sua portata, come gli oggetti resi disponibili dalla tradizione. Quello portato dalla sottrazione è un attacco «contro l’unità stessa dell’io e delle sue responsabilità. […] un attacco portato a quei doveri improrogabili sanciti da una metafisica della scrittura sostanziata nella (e di) tradizione» (ivi, p. 155). Questo rifiuto della comprensione razionale, di un sapere incancrenito, come totalizzazione del passato sotto forma di tradizione, è centrale nella lettura di Grande, che vede in Bene non un artista della comunicazione, un postino della lingua, ma il creatore di uno spazio in cui il linguaggio stesso si sottrae, diventando il gesto di una presenza perciò barbara e incallita.
In questo senso, la relazione tra Grande e Bene trova il suo culmine nella riflessione sul linguaggio:
Carmelo Bene ha fatto della phonè qualcosa di più che una “poetica della voce”, qualcosa di più che uno stilema d’attore irriducibile al “teatro di rappresentazione”. In Carmelo Bene vi è una stretta connessione tra voce e imago del soggetto, poiché la voce non è supporto della parola e la parola non è la terminazione della intenzionalità espressiva: la voce è evento scenico primario che enuncia ciò che accade nella soggettività dell’attore, nell’istantaneità del suo dire/dirsi, nel momento in cui manifesta nella vocalità la sua presenza al mondo in quell’anima sonora liberata e fattasi fantasma del soggetto (Grande 2005, p. 34).
Grande analizza così il modo in cui Bene muta la parola significante, la parola portatrice di contenuto, in phonè, un suono, cioè, che non comunica ma risuona direttamente tra i corpi. Se dunque la prima forma d’antropogenesi, la costruzione dell’uomo civile, è quella dell’uomo parlante, questa forma beniana di vocalità – o forse, ancora meglio, di sonorità – non può che essere una oralità barbara, la scaturigine di un’anarchia possibile. Opposta alla logica della rappresentazione verbale, al richiamo dell’oggetto catturato nella lingua, essa restituisce alla voce la sua dimensione corporea e materica. Il linguaggio è dismesso dalla sua strumentalità e inizia a sperimentarsi in nuove maniere d’esistenza, come una presenza sonora che si aggira tra i corpi, dando finalmente volume a uno spazio non più riducibile alle operazioni di una geometria astratta. Se la voce per esistere non ha più bisogno di essere sostrato del significato, essa non ha più necessità di farsi linguaggio per esprimere. In questa prospettiva, il teatro di Bene non è uno spazio di narrazione, di forme e contenuti, ma un laboratorio, vale a dire un luogo di sperimentazione, in cui la parola non fa che essere destrutturata e liberata nella sua dimensione concreta e performativa.
Questa trasformazione del linguaggio è evidente anche nel cinema di Bene. Ad esempio in Salomè, dove «i temi, i tempi, i procedimenti e i materiali vengono drasticamente bloccati nonappena stanno per passare dalla “apparizione” alla “permanenza” (nel tempo e negli spazi)» (Grande 1973b, p. 135); in un cinema che rinuncia alla linearità della trama per diventare una serie di immagini e suoni che esistono, condensati, per se stessi. Questa apertura, secondo Grande, è ciò che rende il cinema di Bene radicale: un’arte che non cerca di rappresentare ma di presentare, di creare un’esperienza che non può essere ridotta a una spiegazione, ma che si forma per concrezione di elementi che restano tuttavia impliciti, in un «movimento sintattico di “accenni” di gesti, di movimenti e di eventi», lì dove il parlato – il linguaggio immediatamente significante – «tende a evitare quella funzione di “narrazione esterna” (quasi commento) relativa agli “accadimenti” e alle immagini» (ivi, pp. 135-136).
Smettendo di essere parola significante, il lavoro di Bene sul puro piano sonoro dell’oralità, trova il suo corrispettivo nel suo approccio al corpo. Per questo Grande osserva che nel teatro e nel cinema di Bene il corpo stesso dell’attore – in particolare dell’attore-Bene – non è un veicolo di significato semplicemente “riferito”, ma una presenza che si autoannulla, diventando un puro strumento di espressione sonora e visiva. Vale a dire, per Grande «Carmelo Bene è la ribalta fonica del soggetto che si fa attore della sua apparizione e della sua presenza nel dire, attore senza ruolo, attore della presenza accolta nella voce» (Grande 2005, p. 34), che abita il corpo non come un’identità (come ruolo o sostanza) ma come superficie, come luogo in cui la scena prende forma.
Il corpo diviene allora macchina sonora e il linguaggio dilegua, lasciando posto all’oralità pura e non significante del suono, come evento non rappresentativo. Relazione, quella tra corpo e sonorità, che è come un flusso che attraversa la scena e lo schermo, destabilizzando ogni certezza dello spettatore. Ma non solo, perché, come scrive Grande, anche lo stesso attore è sempre in pericolo di fronte a questa assenza di significato nella lingua: è infatti l’Attore-Autore (Bene, ma anche Artaud) «colui che imbocca una strada più difficile, fuori schema, esposta al rischio della solitudine e della follia (umana e artistica), basata sullo sperpero delle risorse, sulla dépense fisica, artistica e morale, e sulla rinuncia alla “lingua” (come potrebbero comunicare, e con chi, Artaud e Carmelo Bene?)» (ivi, pp. 191-192). Questa incompiutezza comunicativa è ciò che rende il teatro e il cinema di Bene radicale, un’opera che non si piega alla logica del consumo ma resiste come atto puro di creazione. In questo senso, ha ragione Ceraolo a sottolineare come l’opera di Bene, resistendo alla logica della rappresentazione, tramutando la parola non più in segno, ma in vibrazione, in suono che abita lo spazio senza cercare di significare, sovverte non solo i codici del teatro ma anche le stesse fondamenta metafisiche del linguaggio: «Quella di Bene è una vera e propria macchina melodrammatica che utilizza il regime sonoro per destituire il primato letterario dell’opera e tornare al suo piano pre-espressivo, per ripensare, in termini nuovi, l’essenzialità del teatro scardinandone ogni referente metafisico» (Ceraolo 2022, p. 460).
Se dunque l’incompiutezza è il nodo intrinseco della sottrazione, essa ha caratterizzato persino il rapporto tra Grande e Bene, in un dialogo che non si è mai, di fatto, concluso. Al contrario, questo è rimasto sempre un confronto aperto tra due visioni del mondo che si intrecciavano e si riflettevano l’una nell’altra. Grande vedeva in Bene un interlocutore capace di mettere in discussione la stessa rigidità delle sue prime idee da teorico, come riconosce anche De Gaetano (1999). Grande, in questo senso, è stato uno studioso che non si limitava a creare, a dar forma interpretazioni compiute, ma che pensava attraverso lo stesso atto di creazione.
Allo stesso modo, anche l’opera di Bene non è stata solo un’attività, ma una forma di pensiero nel gesto dell’Attore-Autore, una intera filosofia che si è espressa attraverso il corpo, il suono e l’immagine (i tre “trascendentali” sia del teatro, sia del cinema, in continuità con la vita). Per Grande, questo pensiero-gesto non è mai astratto ma deve essere sempre incarnato, muoversi cioè con il corpo dell’attore, in un modo di abitare il mondo che si oppone alla stabilità formale della rappresentazione, per abbracciare una forma di pura esperienza. Questo è ciò che rende il rapporto tra Grande e Bene unico: un dialogo che non è mai stato solo intellettuale ma anche corporeo, un confronto che ha coinvolto non solo le idee ma anche i sensi, non solo il linguaggio ma anche un’oralità ben più barbara.
Al di là della collaborazione critica, Grande e Bene sono i nomi di un sodalizio creativo che ha mutato la maniera in cui pensiamo il linguaggio e la rappresentazione. Grande, con la sua lettura, ha saputo cogliere il portato radicale e rivoluzionario del gesto di Bene, la sua “presenza barbara”, appunto. Un invito, questo, a ripensare l’arte come un atto di resistenza, un gesto di sfida per aprire nuovi spazi di possibilità, oltre il fine teleologico o il principio strutturante, cioè oltre il necessario. Grande e Bene sono qui riusciti nell’impresa di creare un mondo in cui il significato individuato, per l’uno o per l’altro, va dissolvendosi e la presenza, emergendo come forza primaria, si dà come nulla: mai assenza di contenuto, sottrazione d’essere, ma sempre sperimentazione della potenza dell’immagine.
Riferimenti bibliografici
C. Bene, M. Grande, Lorenzaccio – La grandiosità del vano, Bulzoni Editore, Roma 1986.
Id., Opere. Con l’Autografia di un ritratto, La nave di Teseo, Milano 2023, ed. ebook.
Id., Si può solo dire nulla, Il Saggiatore, Milano 2022, ed. ebook.
A. Cappabianca, Il cinema oltre se stesso, Pellegrini, Cosenza 2012.
F. Ceraolo, La macchina melodrammatica. Vent’anni dalla morte di Carmelo Bene, in Fata Morgana Web. Vol. I. Le visioni, a cura di A. Canadè e R. De Gaetano, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 459-462.
R. De Gaetano, Lo sguardo liminale. Breve saggio su Maurizio Grande, La Balestra, Cosenza 1999.
M. Grande, Maschere e pugnali, in “Cinema & film”, n.9, pp. 257-259.
Id., Materia e linguaggio, in “Bianco e Nero. Mensile di studi sul cinema e lo spettacolo”, 11/12, 1973a, pp. 28-81.
Id., Salomè o la fine del mito, in “Bianco e Nero. Mensile di studi sul cinema e lo spettacolo”, 11/12, 1973b, pp. 135-153.
Id., Il circuito della sottrazione, in “Bianco e Nero. Mensile di studi sul cinema e lo spettacolo”, 11/12, 1973c, pp. 154-158.
Id., La riscossa di Lucifero, Bulzoni, Roma 1985.
Id., Scena evento scrittura, a cura di F. Deriu, Bulzoni, Roma 2005.
Maurizio Grande, Carmelo Bene. Il circuito barocco, Bianco e Nero, Roma 1973.