Sono mesi che, in particolare attraverso i social media, leggiamo post, articoli, news o guardiamo teaser, foto di scena, gallerie dalle maggiori première del mondo, meme, plurime versioni di manifesti sponsor (non da ultimi quelli che hanno ideato la spassosa crasi con Oppenheimer di Christopher Nolan) che hanno acceso l’accecante universo di Barbie di Greta Gerwig prima ancora che questo uscisse in sala. Ora, a pochi giorni di distanza dalla prima italiana, è di nuovo tutto un parlare sui social, questa volta post-visione: chi grida alla spazzatura ideologica senza una forma convincente, chi osanna il femminismo Mattel strappandosi le vesti ad ogni scena. Non ci sono mezze misure.

Lungi dal voler assumere una di queste posizioni o, più in generale, schierarsi a favore o a sfavore delle scelte della cineasta a partire dai contenuti che Barbie chiama in causa – in modo decisamente ambizioso, su questo sono tutti concordi –, proviamo a tornare un secondo a considerarlo un film, e cerchiamo di capire cosa di geniale – un elemento azzeccato deve esserci perché un film riscuota questo successo al box office – Gerwig individui nel decidere di portare sullo schermo per la prima volta il gioco in assoluto più amato dalle bambine nel mondo occidentale.

Per essere precisi i Mattel Entertainment Studios avevano già allietato il pubblico delle più piccole con una serie di film animati – realizzati ad inizio anni duemila – in cui la Barbie di plastica prendeva vita e diventava una principessa, un’eroina capace miracolosamente di sciogliere la rigidità dei suoi ingranaggi e mostrarsi finalmente in movimento. Tuttavia, è evidente, l’operazione di Mattel con Gerwig è ben più radicale: non soltanto perché passa dal cartoon al film per adulti ma perché, al contrario delle animazioni digitali un po’ anchilosate e ridicole delle precedenti operazioni, non appiattisce Barbie su una narrazione che originariamente non le compete (Raperonzolo dei fratelli Grimm, per dirne una), ma costruisce un racconto brillante intorno a chi in effetti sia Barbie, cosa rappresenti, come si sia trasformata nel corso dei decenni.

Meglio ancora, mette in scena – soprattutto nella prima parte del film, la più riuscita – un gioco fino a questo momento individuale, quasi potremmo dire segreto, a cui le spettatrici ormai grandi (sono loro ad affollare le sale) hanno dedicato ore della propria infanzia, rendendolo all’improvviso pubblico, esposto a masse di sconosciuti che miracolosamente entrano nella cameretta di ogni bambina e realizzano cosa accadeva dietro quella porta o, all’inverso, concretizzando agli occhi di chi stava in quelle camerette non tanto a cosa stesse giocando, ma cosa fosse in gioco.

Le prime scene del film, scenograficamente superlative, calano lo spettatore nel mondo californiano e sempre estivo della bambola, nelle case dei sogni della “Barbie stereotipo” (Margot Robbie) e delle sue compagne, sulla spiaggia dove i Ken (tra cui Ryan Gosling) non fanno che fingere di surfare e bere bibite fredde. Per almeno una ventina di minuti il cinema di Gerwig si mette in altre parole totalmente a servizio del mondo Mattel, curando in ogni minimo dettaglio la costellazione di accessori con cui tutte noi ricordiamo di aver giocato, spingendo la cinepresa a farsi occhio magico dentro gli spazi di un’immaginazione condivisa, spioncino grazie al quale vedere quello che ricordiamo piccolo diventare d’un tratto a dimensione umana.

Non abbiamo l’impressione che gli Warner Studios abbiano ricostruito la casa di Barbie per farci passeggiare i due divi americani; al contrario è forte la sensazione che sia il cinema a rimpicciolirsi per fare il suo ingresso dentro quello che, già molto prima del film, è un set di cui tutte siamo state registe in passato. D’altronde sulla metafora di Barbie come eccellente emanazione del set hollywoodiano la regista gioca per tutto il film – Ken si appassiona ai western, Barbie guarda Il padrino, le sue amiche si lanciano in un musical alla Grease, e così via.

Questo primo elemento, che può sembrare banale, è in realtà ciò che crea fin da subito un aggancio emotivo raro con gli spazi della scena, tanto più che, grazie all’escamotage della voce narrante recitata da Helen Mirren, Gerwig può esplicitare che ciò che vediamo è frutto dell’azione di un gioco di bambine che nel mondo reale stanno muovendo quegli oggetti e quelle figure. E difatti la regista intelligentemente non fa scendere a Barbie le scale – nessuna di noi aveva la pazienza di muovere le giunture di plastica sugli scalini, uno alla volta –, ma la fa volare dai tetti alla piscina, dal letto alla cucina dove fa colazione, e via dicendo.

Si tratta di un vero e proprio reenactment del gioco infantile ad un livello mai raggiunto dal medium cinematografico, e se il film si chiudesse dopo quei venti minuti non avrebbe meno valore. C’è però un seguito, e anche piuttosto complesso: Barbie comincia a pensare alla morte, nel mondo reale qualcuno (una madre nostalgica che desidera recuperare il rapporto con la ribelle figlia adolescente) sta giocando “male” con la bambola che così rischia di diventare “stramba”, Barbie deve oltrepassare il confine tra i due mondi per rimettere le cose a posto e ai nevrotici capitalisti della Mattel la situazione sfugge di mano; nel frattempo Ken approfitta dell’assenza di Barbie per instaurare un patriarcato a Barbieland, così la bambola torna con le due umane nella sua casa originaria e insieme tutte le donne riescono a sgominare il neonato potere maschile, se pur con un maggior rispetto per i poveri Ken fino a quel momento bistrattati e considerati superflui e senza nerbo.

Questa in pochi passaggi la sinossi, che chiaramente sceglie di intavolare attraverso la storia di Barbie discorsi di un impegno forse a tratti eccessivo, tanto da rallentare il ritmo visivo del film – in molte scene potentissimo – e rischiare di trasformarsi in un lavoro “a tesi”: Barbie icona del femminismo ma anche modello di perfezione irraggiungibile e dunque discutibile, Ken simbolo di un minaccioso potere usurpativo ma anche povera vittima di un mondo capovolto in cui sono le donne a comandare.

La vera questione che tuttavia Gerwig sembra – forse in parte involontariamente – mettere a fuoco è però un’altra. Ripartiamo dalla casa di Barbie, da quei primi venti minuti del film. Credo che molte di noi possano affermare che la parte più divertente del “giocare a Barbie” era preparare il set delle sue avventure (spesso di piatta vita quotidiana, quella più divertente da organizzare per le bambine che emulano il mondo degli adulti). La cucina con la colazione pronta, il letto fatto, la camera dei bimbi con i giocattoli ordinati sui ripiani, il salotto con il sofà di fronte alla televisione, il giardino ordinato con una bella piscina e il cane pronto a ricevere le coccole, il bagno con la vasca idromassaggio, e via dicendo. Questo solitamente durava ore – per Gerwig è durato mesi, e ha reso partecipi anche noi, come si diceva all’inizio, della fase preparatoria del gioco.

Poi però si doveva cominciare a giocare. Quella perfezione andava in qualche modo dissolta: i bicchieri non riuscivano a stare dritti sul tavolo, Barbie cadeva dalla sedia, i piedi di mamma e papà inciampavano nel nostro salotto delle meraviglie, l’acqua vera nella vasca rosa schizzava i vestiti della bambola. Ma, soprattutto, si doveva scegliere che storia inventare. Ma Barbie, questa è la vera domanda con cui la cineasta sfida coraggiosamente se stessa, è adatta ad essere narrata?

La risposta rimane e rimarrà sempre dentro un enigmatico “forse”, dal momento che per narrarla necessariamente deve essere contaminata dalla realtà, e questo è un bene – perché permette alle bambine di muovere le bambole educandosi a sgretolare il mondo fittizio e imparare a comprometterlo – e un male – perché finisce con il distruggere quell’idealità della bambola (magari spettinandola e colorandola con i pennarelli) che è invece la sua forza.

Nella prima sequenza è già tutto chiaro: Gerwig sceglie di riproporre l’“alba dell’uomo” kubrickiana trasformando le scimmie nelle bambine anni ’50 che ancora si accontentano di giocare con i bambolotti nel ruolo di mamme e casalinghe e sostituendo il corpo avanguardista dell’astronave con quello di una gigante biondona che permette loro un nuovo tipo di gioco. Non l’accudimento di un sé che già conoscono – il bambolotto come la piccola in fasce che sono state – bensì la proiezione su ciò che un giorno potranno essere – una donna adulta, bella e trendy, sorridente e tonica.

Barbie è la proiezione di un desiderio. Raccontarla significa per forza di cose destabilizzare il suo cadere nel “tempo non tempo” della sua potenzialità e renderla atto. Siamo cadute tutte in tentazione: era tanto bella la casa immacolata, ma avevamo bisogno di farla litigare con Ken, farle fare dei figli, farla lavorare, farla piangere, farla pensare alla morte.

Ci è caduta anche Gerwig. Anzi, la regista volutamente ci mostra i rischi in cui si incorre quando un’idea viene tradotta in una storia, e come la storia possa far maturare e problematizzare l’idea ma come d’altro canto possa renderla noiosa, perché quella seconda parte del gioco destituisce la proiezione attualizzandone le controversie.

Innate controversie della bambola più fortunata al mondo, che vorremmo depressa e con le mestruazioni ma, al contempo, che ci fa sognare quando beve da un cartone del latte da cui non esce nulla e cammina sulle punte anche senza tacchi. Da questa contraddizione non usciremo mai, ma Barbie si prende il grande merito di avercela definitivamente palesata.

Barbie. Regia: Greta Gerwig; sceneggiatura: Greta Gerwig, Noah Baumbach; montaggio: Nick Houy; fotografia: Rodrigo Prieto; scenografia: Sarah Greenwood; costumi: Jacqueline Durran; musiche: Mark Ronson, Andrew Wyatt; interpreti: Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Michael Cera, Ariana Greenblatt, Rhea Perlman, Will Ferrell, Connor Swindells, Kate McKinnon; produzione: Heyday Films, LuckyChap Entertainment, Mattel Films; distribuzione: Warner Bros; origine: USA, Regno Unito; durata: 114′; anno: 2023.

Tags     Barbie, Greta Gerwig, Mattel
Share