Un cavallo si avvicina ad un abbeveratoio, in un paesaggio quasi idilliaco, probabilmente una masseria. È sera, al calar del sole, ma il nostro sguardo è disturbato dalla presenza di un “mostro d’acciaio” la cui imponente presenza macchia quello che è un quadro quasi perfetto. Il cinguettio degli uccellini è interrotto bruscamente dal pianto di un neonato e dal caos generato da un gruppo di bambini che, allegramente, si lasciano andare a tuffi e risate tra i pescherecci del porto e a partite di calcio improvvisate tra vicoli e stradine. Quella costruzione inquietante, tuttavia, è sempre lì, alle loro spalle, ed emette una quantità enorme di fumi grigi che macchiano l’azzurro del cielo e si mimetizzano tra le nuvole.

Come apprendiamo nel corso del film, grazie ai festosi cori ultrà intonati da alcuni di questi bambini, siamo a Taranto. Quel mostro è l’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, la cui figura si erge prepotentemente sulle suggestive bellezze che Giulio Mastromauro ci mostra in apertura del suo lungometraggio Bangarang:

[…] con i suoi mille e cinquecento ettari di stabilimento, oltre due volte l’estensione della città, con le sue enormi costruzioni: tubifici, altiforni, acciaierie, laminatoi […] nastri per il trasporto dei minerali dal porto ai parchi, dove si accumulano in scure colline che spargono un polverino rossastro sulla città e sulla campagna circostante; luci bianche, gialle, rosse e intermittenti  […] puzze, a cui noi siamo purtroppo abituati e non ce ne accorgiamo più se non quando lasciamo la città per qualche giorno e poi facciamo ritorno (De Palma 2012, p. 81).

Sono proprio i bambini, protagonisti della pellicola, a farci da Cicerone tra i vicoli e le palazzine dei propri quartieri, presentandoceli e raccontandoci le loro vite. Sul lato di una costruzione vediamo d’un tratto un enorme e coloratissimo murales. Due di loro, allora, prendono parola e si posizionano di fronte alla telecamera raccontandoci – se pur in versioni che sembrano essere leggermente divergenti – che quel bellissimo disegno raffigura una donna, malata di cancro, che non potendo aver figli a causa della propria malattia decise di distribuire dei pupazzi a tutti i bambini del quartiere. Che questa storia possa essere romanzata o meno, ad oggi sappiamo bene come vivere nelle zone limitrofe al “mostro d’acciaio” possa portare ad epiloghi come questo. Taranto, infatti, produce circa il 92% di tutta la diossina italiana: gli effetti che essa provoca sono terribili e da questi non si scappa in alcun modo, dal momento che «la diossina è subdola e si trasmette in eredità ai figli» (Vulpio 2012, p. 15). Le conseguenze appaiono difatti inevitabili «di fabbrica si muore, e ci si ferisce in un numero ancora maggiore e difficile da conteggiare, dal momento che le stesse cronache dei quotidiani difficilmente riportano ogni caso» (Leogrande 2018, p. 186). È ancora un murales – che i bambini ci mostrano verso il finale – a sottolineare questa tesi tanto infausta: quello di Giorgio Di Ponzio, quindicenne deceduto a causa di un sarcoma ai tessuti molli, realizzato sulla facciata di un palazzo, in località Tramontone, dall’artista Jorit.

Nel film, una volta rivelato il luogo in cui il regista muove la propria “denuncia”, la presenza dell’Ilva si fa sempre più costante, accompagnando parallelamente le vite e le avventure dei giovani filmati. Questi convivono quotidianamente con “il mostro” senza ormai rendersi conto neppure della sua presenza. Emblematica, in tal senso, la scena in cui un gruppetto di loro si diverte a tuffarsi in un corso d’acqua spaventosamente vicino allo stabilimento: si tratta del Tara, fiume che attraversa le campagne tarantine, centro nevralgico anche del film di Volker Sattel e Francesca Bertin, Tara – appunto – che riesce a portare, con successo, una problematica simile all’attenzione di un pubblico internazionale.

Il lavoro di Mastromauro è essenziale, così come quello dei tanti registi che, come lui, decidono di usare il mezzo cinema per sensibilizzare lo sguardo dell’opinione pubblica, evidenziando la presenza di criticità urgenti: per mezzo della propria macchina da presa, il regista apre una finestra sulla vita di Taranto e dei suoi giovani abitanti, che convivono con una problematicità della quale non tutti sembrano rendersi conto. I bambini riescono immediatamente a familiarizzare con il film-maker, che cattura da subito la loro attenzione, mettendo a disposizione della loro fantasia “la cosa che registra”, con la quale giocano, sentendosi coinvolti a pieno nel lavoro. Il rapporto con i giovani protagonisti appare dunque simbiotico, evidente chiave di volta del successo di un progetto di questo tipo. 

È il racconto di una realtà oggettivamente tragica, ma narrata da occhi puri ed innocenti. Lo sguardo dei bambini è centrale, lo si può intendere partendo dal titolo scelto dal giovane regista originario di Terlizzi: “Bangarang” infatti è l’urlo dei ragazzi perduti nella pellicola Hook – Capitan Uncino (1991) di Steven Spielberg. Il grido viene usato dai giovani per incitarsi ed esprimere unità di gruppo, ma anche ribellione verso ciò che non ritengono giusto. Mastromauro si è da sempre dimostrato vicino ai drammi infantili, non a caso è su questo difficile tema che si regge anche il suo cortometraggio di maggior successo, Inverno (2020), che racconta la difficile fase di crescita di un bambino che deve fare i conti con la drammatica perdita della figura materna.

Nel panorama cinematografico italiano, il problema Ilva è emerso a più riprese: si pensi ad esempio all’excursus storico che offre Ilva: c’era una volta l’acciaio (2020) di Cecilia Mangini e Paolo Pisanelli, o a La Svolta – Donne contro l’Ilva (2013) di Valentina D’Amico, che sottolinea la lotta che portano coraggiosamente avanti donne e madri di famiglia, ma anche allo “sguardo da insider” di Michele Riondino in Palazzina Laf (2023). Il regista di Bangarang, filmando la purezza dell’infanzia, ci regala un prodotto certamente innovativo e dal senz’altro forte impatto emotivo: sono infatti i sogni e le speranze dei bambini a rendere ancor più drammatico il contesto in cui essi svolgono le proprie giornate. Una bimba passa la mattinata a lucidare un furgone, impegnandosi a rimuovere l’incredibile quantità di polvere rosa che lo ricopre. La polvere rosa – contrariamente a quello che d’impatto possa sembrare – non è un elemento magico di qualche incantevole favola: si tratta del residuo ossidato della polvere di ferro di cui Taranto è sommersa, in particolare il quartiere Tamburi, una delle zone più colpite della città. 

Tutto è pieno di questi residui e ciò è messo in evidenza da una carrellata di piani che ci mostrano in dettaglio l’ingente quantità di polvere depositata ovunque, dalle palazzine, alle statue, fino ai giochi con cui i bambini trascorrono allegramente le proprie giornate. Quando poi si manifestano i cosiddetti “wind days”, la popolazione viene invitata a star chiusa in casa e gli spazi, normalmente popolati dal caos dei bambini, assumono le sembianze di quartieri fantasma. Ad avvalorare il senso di ciò è certamente il lavoro del direttore della fotografia Sandro Chiesa, grazie al quale restiamo sgomenti e avviliti al pensiero che tutto ciò avvenga a pochi chilometri da noi.

L’Ilva non è una fabbrica: alla domanda posta dal regista, i piccoli non ne riconoscono l’esistenza in tal senso. Essa è piuttosto la causa dei tanti problemi con cui loro, ed in particolar modo le proprie famiglie, si trovano a convivere. La loro innocenza li protegge dalla paura ed i loro sogni coprono le preoccupazioni che quotidianamente ascoltano. Questi sono tanti, fortunatamente: volare, vivere in un mondo di cioccolata, o addirittura pescare un’orata di 5kg. Un giorno, però, una volta cresciuti, questi lasceranno spazio al drammatico sogno di sopravvivenza: la voglia di restare a casa, al Sud, nella tanto amata Taranto, difficilmente resterà la stessa. 

Riferimenti bibliografici
A. Leogrande, Dalle macerie Cronache sul fronte meridionale, Feltrinelli, Milano 2018.
A. Verrocchio, Storia/Storie di amianto, Ediesse, Roma 2012.
C. Vulpio, La città delle nuvole. Viaggio nel territorio più inquinato d’Europa, Edizioni Ambiente, Milano 2012.

Bangarang. Regia: Giulio Mastromauro; sceneggiatura: Giulio Mastromauro; fotografia: Sandro Chiesa; montaggio: Gianluca Scarpa, Cristina Barillari; musiche: Bruno Falanga; produzione: Zen Movie, Dispàrte, Nuovo Imaie, Apulia Film Commission; distribuzione: Zen Mov; origine: Italia; durata: 75’; anno: 2023.

Tags     cinema del reale, Ilva
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