Nicolas Philibert, fin da quando decise di filmare l’Adamant, aveva ben presente come il centro diurno facesse parte di un insieme più ampio di unità psichiatriche: Averroès e Rosa Parks sono due unità dell’ospedale Esquirol che dipendono, come l’Adamant, dal Polo psichiatrico Paris-Centre. La complementarità tra le diverse unità psichiatriche del centro si riflette sulle ultime due opere del regista: Sur l’Adamant e Averroès & Rosa Parks sono opere complementari che si impegnano nel filmare una certa psichiatria che, seppur sempre più schiacciata dai protocolli del sistema sanitario, cerca ancora d’accogliere e riabilitare la parola dei pazienti. Il regista, riprendendo una dozzina di colloqui individuali e alcuni collettivi, intervallati a un’ispezione dello spazio del centro (dei corridoi, del cortile, degli uffici e delle aree ricreative), costruisce delle finestre aperte sulla mente degli ospiti che in modi differenti provano a relazionarsi con gli altri che li circondano.
Fin da Nel paese dei sordi (1992) Philibert inizia ad utilizzare le interviste come elemento diegetico a sé stante, come cellula della narrazione che tiene insieme sia lo sguardo del regista che quello del soggetto ripreso, facendo convergere entrambi nel diretto dialogo con lo spettatore. Anche in Averroès & Rosa Parks, come Sur l’Adamant, «l’intervista diviene in sé stessa direttamente una forma di conoscenza, e una possibilità per lo spettatore di porsi all’ascolto» (Scarponi 2008, p. 73).
Nonostante abbiano gli stessi intenti, il confronto tra le due opere mette in risalto la differenza tra le strutture filmate da Philibert: se l’Adamant è una particolare struttura galleggiante ormeggiata sulla Senna, in cui si organizzano continuamente attività ricreative, Averroès e Rosa Parks sono due unità molto più classiche e istituzionalizzate. Le prime sequenze di quest’ultimo film, infatti, si concentrano attraverso delle inquadrature aeree sull’architettura della costruzione, mettendo in evidenza come la sua forma imponente ricordi proprio quella di una struttura penitenziaria. Le asettiche sale dei colloqui, i camici bianchi degli operatori, le videocamere di sorveglianza, le grate che recintano la costruzione istituiscono una maggiore dimensione di controllo.
Anche se Averroès & Rosa Parks si presenta come un prolungamento di Sur l’Adamant, è come se Philibert, dopo aver filmato un perfetto e luminoso primo piano, si dedicasse ora al dietro le quinte: oltre ad essere luoghi più severi, anche i pazienti che li affollano sembrano più fragili e vulnerabili. Nei diversi colloqui gli ospiti del centro raccontano delle loro tendenze al suicidio (evidenti da alcuni segni di soffocamento sul collo di uno di questi), oppure insultano ripetutamente gli operatori, o ancora urlano acutamente sovrastando la parola già debole del paziente che colloquia.
Se in Sur l’Adamant la presenza degli assistenti durante i colloqui era molto più discreta, nel suo ultimo lungometraggio Philibert invece fa emergere chiaramente la relazione intersoggettiva che si crea tra il paziente e la figura professionale. È interessante notare come le molteplici relazioni siano ognuna differente dall’altra: ogni paziente reagisce alle domande poste dall’assistente secondo personali schemi motori e automatismi, modulando diversamente la voce, orientando o meno lo scambio. Per esempio, se il primo ospite durante l’intervista ha un atteggiamento particolarmente polemico e paranoico, esprimendo più volte la sua paura d’essere recluso e sottoposto a regole eccessivamente ferree, il secondo, invece, è più propenso a raccontarsi, adottando una posizione molto più aperta e fiduciosa. I colloqui successivi riprendono talvolta pazienti rassegnati e assenti, altre volte pazienti più speranzosi e determinati nel provare a costruire una nuova identità sociale. La multiformità relazionale si riversa immediatamente nella forma che Philibert adotta per filmare ogni colloquio: alcuni sono lineari, altri sconnessi; alcuni hanno una certa durata, altri avanzano con più velocità; alcuni scorrono fluidamente, altri si interrompono.
La relazione diadica tra il paziente e l’assistente è sempre protetta dallo sguardo di Philibert che, anche se più arretrato rispetto a Sur l’Adamant, dove spesso i pazienti si rivolgono direttamente a lui, è comunque attivamente testimone. In particolare, il regista è molto scrupoloso nell’accertarsi della consapevolezza dei soggetti filmati: considerando il contesto in cui si trova a filmare, Philibert sta ben attento a non ledere la libertà o invadere lo spazio altrui. È importante filmare solo persone con le quali si riesce a instaurare uno scambio consapevole, al fine di non congelarli, a loro insaputa, nello spazio e nel tempo del film.
Questo è un esempio di come le marche dello stile documentaristico di Philibert si sviluppino naturalmente dagli eventi, senza mai essere previste: il regista si pone di fronte al flusso evenemenziale delle cose con un’infinita dolcezza lontana da qualsiasi irrigidimento in una forma pianificata. Philibert non decide a priori la forma del suo cinema, ma adegua le scelte di regia, di montaggio e l’approccio con i soggetti all’evento che intende riprendere: il cinema di Philibert sembra inizialmente amorfo perché si costituisce in una continua generazione performativa nel momento stesso della ripresa.
Per questo il tempo di Averroès & Rosa Parks è quello dell’attesa, della programmazione del caso (Philibert 2005): il regista, però, non attende il grande evento, ma il semplice accadimento, quello quasi inafferrabile come il fastidio provocato dall’ascolto del rumore in Nel paese di sordi, il balbettio dei bambini nel primo approccio alla lettura in Essere e avere (2002), il ritmo e la forza agente della parola veridica in Sur l’Adamant e Averroès & Rosa Parks. Concludiamo sapendo dell’intenzione del regista di girare un terzo lungometraggio dal titolo La machine à écrire et autres sources de tracas, ancora dedicato a soggetti affetti da disagi psichici, costituendo così un trittico. Da dove sorge la necessità di Philibert di confrontarsi ancora con contesti e soggetti psichiatrici? Forse per Philibert, la psichiatria è una lente d’ingrandimento dell’umano. A partire dall’incontro e dal dialogo con i più fragili si scoprono delle profonde verità su noi stessi. La malattia per Philibert ha una funzione epistemica e il cinema è il mezzo migliore per indagarla.
Riferimenti bibliografici
N. Philibert, Progettare il caso, in J. Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema, Torino, Lindau, 2005.
D. Scarponi, Nicolas Philibert. Il cinema dell’empatia, Milano, Selene edizioni, 2008.
Averroès & Rosa Parks. Regia: Nicolas Philibert; montaggio: Nicolas Philibert; fotografia: Nicolas Philibert; produzione: Les Films du Losange, TS Productions; origine: Francia; durata: 143′; anno: 2024.