«Il modo giusto di leggere oggi» dice Deleuze nelle Conversazioni «è quello di porsi di fronte a un libro così come si ascolta un disco, come si guarda un film o una trasmissione televisiva, come si sente una canzone: ogni atteggiamento di fronte a un libro che richieda per lui un rispetto speciale, un’attenzione di altra sorta, è qualcosa che giunge da un’altra epoca e che condanna definitivamente il libro» (Deleuze e Parnet 2019, p. 9). A un film, una trasmissione televisiva, una canzone dedichiamo di solito un’attenzione intermittente: certi passaggi li ripercorriamo cento volte e li impariamo a memoria, altri invece ci lasciano indifferenti e li saltiamo. C’è un’attenzione continua, indiscriminata, devota che prende a oggetto i libri e il mondo, e poi c’è un’attenzione diversa, mista a distrazione, davanti alle cose che per quanto conosciute non sono famigliari, ci prendono e ci lasciano in modo sorprendente, senza che siamo noi a decidere come e quando aprire gli occhi o le orecchie.

L’osservazione sul “modo giusto di leggere” sembra cadere a casaccio ma forse insegna qualcosa sullo statuto di quelle esperienze che Deleuze chiama “linee di fuga” e di cui in Mille piani dà un esempio molto concreto: «Si vede, si parla, si pensa su questa o quella scala e seguendo una certa linea che può o non può coniugarsi con quella dell’altro, anche se l’altro è ancora se stesso. Non bisogna insistere e non bisogna discutere, ma fuggire, fuggire dicendo anche “d’accordo, completamente d’accordo”. Non vale la pena parlare» (Deleuze e Guattari 2017, p. 291).

La fuga comincia quando ci capita di distrarci, di non dare alle cose o alle persone lo stesso credito che avevamo dato fino a quel momento. Non perché gliene diamo di meno, ma perché perdiamo la nostra fede ingenua nel mondo. Quando siamo in fuga non c’è più un mondo perché le nostre abitudini hanno ceduto. La fuga mette in discussione le convenzioni e le prassi consolidate: il modo di comportarsi, di prendere la parola e rivolgersi agli altri, di ascoltare e agire. Chi si mette in fuga apre una piccola voragine attorno alla quale il mondo comincia a vorticare, cambia d’aspetto, le cose e le persone iniziano ad attrarci e repellerci in una maniera che non ci aspettavamo.

Ascoltare, scrivere, passeggiare, dormire: le nostre azioni sono linee del desiderio (Deleuze e Parnet 2019, p. 92). “Desiderare” è un sinonimo di “produrre” e “combinare”. Chi desidera aggancia pezzi di realtà, inventa di volta in volta una combinazione di elementi: l’orecchio e i suoni, i suoni e i suoni, la penna e la carta, i piedi e il sentiero, la testa e il cuscino, il sonno e il sogno. Le linee di fuga sono le combinazioni più avventurose perché agganciano l’uno con l’altro pezzi di realtà che di solito non stanno insieme. Le combinazioni sviluppate sulle linee di fuga sono precarie, la loro struttura cambia in continuazione, rischiano a ogni istante di spezzarsi. È un pericolo necessario perché il percorso della fuga è fatto di incongruenze e brusche svolte. Quando però l’avanzata è troppo veloce e solitaria le linee di fuga possono perdere la propria virtù creatrice e trasformarsi improvvisamente in linee di abolizione: le linee stavano per creare qualcosa e invece sono esplose, hanno finito per mandare a gambe all’aria se stesse e il mondo che se ne era lasciato sedurre.

La linea di fuga può essere accompagnata da una passione per l’annientamento. «La musica stessa» si chiede Deleuze «perché fa venire tanta voglia di morire?» (ivi, p. 134). Ogni linea mette in conto la possibilità dell’abolizione ma la musica è la linea più fragile perché fin da subito insegue il suo contrario: il silenzio oppure il rumore. Furtwängler pensa che la musica è «il travaglio della lotta contro i demoni» (Furtwängler 1980, p. 104). Per convincersene, diceva, basta ascoltare Beethoven la cui materia musicale è «“dinamicamente infinita”, veramente straripante da ogni lato» e i cui appunti di composizione mostrano un cammino che muove faticosamente «dal caos alla chiarezza» (ivi, pp. 224-6).

Con le esecuzioni berlinesi nel giugno e nell’ottobre 1943 della Quinta e della Settima sinfonia è come se Furtwängler percorresse a ritroso il cammino della composizione per far percepire il caos direttamente nei suoni. Non è esagerato dire che queste performances anticipano i sedici attacchi aerei e le 15.000 tonnellate di bombe sganciate sulla capitale nei mesi a seguire: il finale del terzo movimento della Quinta diventa il brontolio di un cielo carico di fulmini, i timpani del primo movimento della Settima sono una “caccia selvaggia” il cui galoppo rende quasi inudibile la melodia degli archi, il ritmo a note ribattute dei fiati e gli strappi dei violini alla fine dell’Allegro con Brio sono uno spazio che sta cadendo a pezzi. Furtwängler porta le linee della musica beethoveniana davanti a un limite oltre il quale esploderebbero.

Anche se il caos è il fine della musica la composizione non deve lasciarsene inghiottire, deve eccederlo (Deleuze e Parnet 2019, p. 134) e saper ricominciare. La composizione si sviluppa sfilacciandosi, avanza bloccandosi. Tra il farsi e lo scomparire della linea c’è una distinzione formale ma nessuna distinzione reale: una linea che si disorganizza e precipita sta per ciò stesso ricombinando il proprio assetto.

Il rilancio reciproco di ascesa e caduta è una condizione strutturale dell’esperienza ma è difficile da rendere con i nostri codici estetici. Spesso, pur di sottrarci al mondo semi-carcerario dell’abitudine siamo pronti a darci in pasto al vuoto. Per la scrittura musicale è dietro l’angolo il pericolo che la caduta si sciolga dall’ascesa e diventi abolizione. Quando la composizione perde la propria lotta contro i demoni questi si mettono a soffiare con le loro trombe ai quattro venti e fanno perdere ogni capacità di orientamento. È piccolo l’intervallo che separa la fuga dall’abolizione, è difficile distinguere un capolavoro da un crimine.

I libri e la musica sono attrezzi, ma – soprattutto all’inizio e alla fine di una lettura o di un ascolto – gli attrezzi ci cadono di mano, e non è necessariamente una colpa. Forse è soltanto così che impariamo a utilizzarli, quando siamo impacciati, troppo entusiasti e troppo annoiati, quando ci intratteniamo con le cose che ci mettono in imbarazzo. Siamo fortemente tentati di lasciarle perdere, dimenticarle, invece ci facciamo violenza e insistiamo. In questo modo diventiamo capaci di una attenzione e passione che nascono dalla distrazione, il nostro mondo diventa «un insieme di suoni scanditi, di gesti decisivi, di idee scoppiettanti, di attenzione estrema e di chiusura improvvisa» (ivi, p. 16). È tutt’altro che facile, ma capiamo che ne vale la pena.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, Orthotes, Napoli 2017.
G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, ombre corte, Verona 2019.
W. Furtwängler, Parola e suono, Fògola, Torino 1980. 

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