“Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti”: queste parole sono dette da un Edipo ormai consapevole del proprio terribile destino nell’Edipo a Colono di Sofocle. Queste parole quasi identiche tornano anche nella Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche: esse costituiscono la profonda verità del Sileno sul significato ultimo della vita. A questa verità profonda e quasi tellurica di un popolo antico e per così dire “originario”, nel senso che a esso non smettiamo di tornare con il pensiero come a una delle nostre origini, Costantino Saru, il protagonista di Assandira, il film presentato a Venezia 2020 da Salvatore Mereu, oppone una verità opposta. In un passaggio fondamentale del film Costantino afferma che la sola cosa buona è la vita, la prosecuzione della vita, il dare la vita a dei figli.
Il rapporto tra padre e figli è fondamentale per capire il film ed è tanto più significativo se pensiamo che il personaggio di Costantino è interpretato da Gavino Ledda, lo scrittore sardo autore del romanzo autobiografico Padre padrone. L’educazione di un pastore (1975), da cui i fratelli Taviani hanno tratto l’omonimo film (1977). Nel romanzo si raccontava la storia di Efisio Ledda, alter ego dell’autore, il quale veniva strappato dalla scuola ancora bambino dal padre pastore per aiutarlo nel suo lavoro. Il libro denunciava le forme patriarcali e arcaiche che ancora dominavano negli anni quaranta del secolo scorso la cultura e la società sarde, specie nell’entroterra.
Il film rovescia questa prospettiva: è come se Costantino fosse di nuovo l’alter ego di Gavino Ledda che ne interpreta il personaggio, ma a parti rovesciate. Siamo alla fine degli anni novanta: ora è il figlio di Costantino, Mario (Marco Zucca), che torna dalla Germania dove fa il cameriere insieme alla compagna tedesca Grete (Anna König) e vuole imporre al padre la sua visione del mondo e i suoi progetti. Costantino è vedovo e vive solo in un piccolo paese, dove gestisce un allevamento nella sua proprietà, che si chiama Assandira come il titolo del film e del romanzo dell’antropologo Giulio Angioni, pubblicato nel 2004 da Sellerio. Contro la volontà di Costantino, Mario e Grete, influenzati da un mellifluo ingegnere, vorrebbero trasformare Assandira in un agriturismo per attirare turisti provenienti soprattutto dal Nord Europa e assetati di immergersi per qualche giorno in un’autentica atmosfera di antichi pastori sardi, ancora legati a un mondo fatti di canti popolari in dialetto, abiti tradizionali e ritmi dettati dalla natura.
Costantino è contrario, anzi ostile al progetto. Il suo rifiuto non è dettato da un netto tradizionalismo, sebbene viva un sentimento di separazione da suo figlio e dai nuovi “costumi” che questi ha assunto. Il vecchio pastore ha un rapporto contraddittorio con la sua terra e con le sue leggi: per quanto vi sia legato, vi si sente “prigioniero”, l’ultimo dei prigionieri del paese si definisce. È ancora vivo in lui il ricordo del padre che, come il padre di Gavino Ledda, lo ha tolto dalla scuola per fare il pastore e lo puniva severamente quando egli commetteva un errore. Sembrerebbe quasi che Costantino volesse lasciare a ciascuno il suo mondo: a se stesso il mondo vecchio del passato, di cui è l’ultimo testimone diretto; a suo figlio il mondo nuovo dei progetti e dei sogni di arricchimento.
Non sono pertanto i moniti ad assecondare i desideri di un figlio, che gli vengono da Grete e dall’oscuro ingegnere, a indurlo a prendere una decisione contraria al suo pensiero. È qualcosa di più profondo e ancestrale. Grete confessa a Costantino che lei e Mario non riescono ad avere un figlio perché il seme di Mario non è abbastanza forte da metterla incinta. È così che Costantino si lascia convincere a seguirli in Germania, dove in un ospedale donerà il suo sperma per permettere a Grete di avere un figlio che apparterà comunque al loro sangue. Questa scelta smuove in Costantino sentimenti contraddittori e in parte inconfessabili, che prendono a volte la forma del sogno. Da un lato si sente attratto dalla sensualità di Grete e, una volta che lei resta incinta, comincia a ricoprirla di attenzioni e tenta quasi di darle il ruolo della moglie morta, donandole il suo abito della festa. Dall’altro lato Costantino sente questo gesto come un incesto con cui ha gettato un’ombra nei suoi rapporti con il figlio e pretende che la cosa resti segreta.
Nonostante tutto questo Costantino finisce per lasciarsi coinvolgere nel progetto turistico immaginato dal figlio e dalla nuora, al punto di recitare per gli ospiti dell’agriturismo il ruolo del vecchio pastore sardo, con tanto di copricapo nero tradizionale e usi popolari come fumare il sigaro al contrario, tenendo la parte accesa in bocca, come esercizio di destrezza. Rievocando tutto questo, Costantino, il quale funge da voce narrante del racconto a partire dal suo tragico epilogo, non smette di sottolineare come egli abbia ceduto a una finzione che ha eliminato la verità dei suoi luoghi. Per lui la verità di Assandira, non solo i canti che lui non pratica e i vestiti tradizionali che di regola non indossa. La verità di Assandira è quella di una povertà dignitosa e senza sprechi, di un lavoro duro e infelice, di una lingua sarda che egli parla molto più fluidamente e spontaneamente dell’italiano.
In un’atmosfera sempre più tesa tra i tre e con i lavoranti dell’agriturismo, in particolare con il prepotente e giovane Peppe Bellu (Samuele Mei), Costantino finisce per scoprire una notte la vera natura dell’agriturismo che Grete e Mario hanno messo su. Seguendo nottetempo i ragazzi e gli ospiti che si allontanano nella campagna per la festa d’addio di un gruppo di turisti, Costantino scopre che, d’accordo con l’ingegnere e con altri loschi individui, Grete e Mario organizzano in una sorta di nuraghe abbandonato delle vere e proprie orge in cui ogni rapporto sessuale, compresi gli animali, è consentito. La scoperta lo sconvolge e gli fa comprendere che il suo vago sentimento di incesto nascondeva una verità ben peggiore ai suoi occhi: una vera e propria degradazione dei corpi, del desiderio e dell’amore, unita a una deformazione grottesca del suo mondo di pastore attraverso la lente deformante dell’immaginario di questi stranieri.
È forse questa falsificazione a essere talmente insopportabile da indurlo a compiere un gesto estremo. Mentre la coppia si allontana per accompagnare i turisti all’aeroporto con le jeep, Costantino dà fuoco ad Assandira, con l’intento più o meno consapevole di distruggerla e di recidere così il legame malato che lo lega ormai al figlio, alla nuora e al bambino che deve nascere. Accade però l’inaspettato: mentre si allontana in automobile, Mario vede il fuoco e decide di tornare per salvare la casa e il padre. Finirà così per morire tra le fiamme; e Costantino farà la terribile esperienza di non poter salvare suo figlio e di vivere così la condizione esistenziale che definisce la più terribile: quella di un padre che si ritrova vivere una “vita inutile” dopo che suo figlio è morto prima di lui (o al suo posto).
Solo quando il magistrato (Corrado Giannetti) venuto a condurre gli accertamenti sull’incendio gli comunicherà che anche suo nipote in ospedale non ce l’ha fatta, Costantino si deciderà a raccontare la verità dei fatti di fronte a un giudice incredulo che tenterà di indurlo a dare una versione ritoccata dei fatti, facendo passare l’incendio per un banale incidente di cui Costantino è solo l’involontario responsabile.
Non si riuscirebbe a cogliere il senso della storia se la si volesse restringere al campo del più stretto realismo, in cui molti elementi ci apparirebbero inevitabilmente forzati. Il significato del film sta nella sua intonazione tragica: Costantino è un eroe tragico che compie un corso di eventi che non può avere altro esito; la sua mancanza non è a tutti gli effetti una colpa morale, ma è una hybris verso un ordine di cose che non saputo salvaguardare. Il mondo prima della tragedia obbedisce ancora alla legge per cui è un bene che una nuova generazione segua alla precedente; e gli sforzi e i desideri degli uomini devono far sì che tale legge continui ad affermarsi nel mondo. Desiderio, unione tra i sessi e amore tra padri e figli devono cementare tale legge. Nel mondo dopo la tragedia questo ordine si rompe quando l’eroe scopre al posto di tali sentimenti un caos di pulsioni che vengono soddisfatte nei modi più artificiali possibili; ma Costantino si sente di avere in qualche contribuito a tale rottura e decide di purificare tutto con il fuoco della distruzione.
Nel finale a Costantino manca la voce di Edipo e del Sileno: il pastore non disdice la legge della vita, ma si chiude in un silenzio che non può che essere interpretato dal resto del mondo, impersonato dal giudice, come follia: è quasi come se la tragedia dovesse rimanere qui nella purezza della forma che le ha dato una storia, senza rovesciarsi, direbbe forse Nietzsche, nel concetto etico della tragicità della vita. Lasciando aperto il giudizio, la tragedia di Assandira ci permette di chiederci: chi ha ragione? Il padre che distrugge il suo mondo per la vergogna di averlo tradito o i figli che ne volevano sospendere le leggi per ritrovare la felicità in un suo sostituto artificiale?
Riferimenti bibliografici
G. Ledda, Padre padrone, Feltrinelli, Milano 1975.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977.
Sofocle, Edipo a Colono, Marsilio, Venezia 1998.
Assandira. Regia: Salvatore Mereu; fotografia: Sandro Chessa; montaggio: Paola Freddi; sceneggiatura: Salvatore Mereu, dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni; interpreti: Gavino Ledda, Anna König, Marco Zucca, Corrado Giannetti, Samuele Mei; produttore: Elisabetta Soddu, Salvatore Mereu; produzione: Viacolvento, Rai Cinema, con il contributo del MiBACT, con il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission; origine: Italia; anno: 2020; durata: 128′.