Jia Zhangke
Zhao Tao in Ash is Purest White (2018).

Mi interessa sempre più indagare la funzione
del cinema come memoria,
il modo in cui registra la memoria,
il modo in cui diventa parte della nostra esperienza storica.
Jia Zhangke

La cenere (del tempo) è il più puro dei bianchi. Il cinema di Jia Zhangke continua a declinare al presente quel pulviscolo memoriale che preme sulle inquadrature di ogni suo film riconfigurandole. Esponente principale della sesta generazione di cineasti cinesi – i più attenti ai mutamenti economico/sociali del XXI secolo, pensiamo anche a Lou Ye, Wang Xiaoshuai, Wang Bing – il regista di Still Life ragiona da sempre sulle ceneri secolari della Storia cinese e sui singoli individui che ne interpretano i mutamenti presenti. Il discorso aperto tra tracce documentali e finzionali (sin dall’esordio The Pickpoket del 1997) non poteva prescindere dall’odierna ibridazione digitale dell’esperienza che si porta dietro una forte carenza referenziale (riflessione portata avanti almeno da The World in poi). Insomma, tra le immagini contemporanee le persone/personaggi possono ancora spostare le montagne restituendo cinematograficamente ogni ragionamento sulla memoria collettiva che riattraversi supporti, formati e stili in una teorica storicizzazione del dispositivo.

Ash is Purest White è il film summa di questo percorso. Un testo aperto dove le tracce del cinema di Jia tornano costantemente come dispositivo di memoria – le riprese scartate al montaggio di Unknown Pleasures (2002) e Still Life (2006) configurano il passato immaginario di questi personaggi – in una tripartizione temporale che parte dal 2001, passa per il 2006 e si ferma al nostro 2018. Zhao Tao (al nono film insieme al regista e compagno di vita) è protagonista di una storia d’amore-e-malavita che manifesta istantanee referenze al cinema honkonghese (visto in Tv nella bisca clandestina) in una libertà formale che aspira invece alla riscrittura moderna degli stili (di palese matrice nouvelle vague). Quindi la provincia dello Shanxi, i cambiamenti socio-economici della Cina e le fratture generazionali conseguenti ci riportano proprio ad Unknown Pleasures come “capitolo primo” di questo romanzo filmato.

 Si passa poi al 2006. L’anno strategico di Still Life, evidentemente riattraversato. Con Zhao Tao che torna in libertà dopo un periodo passato in carcere e parte nuovamente alla ricerca del suo compagno scomparso che non riesce più a rintracciare. Le modalità recitative dell’attrice mutano referenze emotive, giungendo agli umori (la maturità, l’amore ferito) di quel personaggio interpretato nel 2006. Jia le fa attraversare gli stessi spazi, la valle delle Tre Gole, poco prima che la costruzione della diga mutasse per sempre quel paesaggio. E allora quello stesso cantiere e quelle stesse macerie non possono che essere tracce archiviali, ceneri del tempo, immagini della memoria (condivisa) che tornano a significare per noi. Ecco che le improvvise epifanie visive in CGI (computer-generated imagery) che scartavano in maniera radicale la fenomenologia dei gesti di matrice rosselliniana – in uno dei film centrali del decennio scorso, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006 – tornano in questo “secondo capitolo” di Ash is Purest White sotto forma di Ufo che, da leggenda narrata su un treno, diventa presenza fuori campo che incombe. Jia Zhangke continua ad alludere a un visibile insondabile che confonda tracce di passato e leggende popolari, storia del cinema e contingenza dei gesti, in un rinnovato sforzo testimoniale attraverso le immagini.

L’ultimo capitolo, infine, è ambientato nel 2018. Si torna nello Shanxi, i due amanti sono ormai disillusi ed emotivamente “lontani”. Quindi l’incomunicabilità di matrice antonioniana viene aggiornata ai sempre più invasivi dispositivi di controllo che disegnano nuovi (e anestetici) modi di guardare: sarà un freddo messaggio vocale in chat, infatti, a segnare il destino di un amore decennale. Insomma: tempi, stili e regimi di sguardo differenti fanno sopravvivere questi magnifici frammenti di vita colti tra coreografie da gangster movie e immagini-fatto neorealiste; tra le traumatiche contraddizioni della società cinese (Il tocco del peccato, 2013) e i segni della cultura popolare che sublimano ogni dolore (Al di là delle montagne del 2015); arrivando infine ai nuovi ambienti mediali digitalizzati nella disperata ricerca di un’ultima traccia emotiva (come nel Future Reloaded del 2013).

In questo vertiginoso percorso a tappe, però, c’è qualcosa che attraversa le epoche. Un elemento vivo e ancestrale che noi spettatori scorgiamo costantemente in profondità di campo. Un vulcano che “ha qualcosa di puro”, come dice Zhao Tao, diventando non a caso lo sfondo di ogni intima confessione dei due amanti dal 2001 al 2018. Insomma il bianco atemporale di quella cenere diventa la referenza ultima di ogni immagine di Jia Zhangke, un regista che con miracolosa semplicità riesce a configurare ogni quesito teorico fondante del nostro tempo nella pelle delle proprie immagini, nei moti dell’anima dei suoi personaggi, infine nello sguardo di una’attrice/compagna/musa che attraversando ogni suo film costruisce per noi un unico grande romanzo per immagini.

«Il tempo che trascorre in Ahs Is Purest White copre anche il mio percorso registico. Abbiamo tanto materiale, abbiamo girato tante cose in questi anni e queste immagini sono diventate il riflesso dei nostri cambiamenti, non soltanto di noi stessi ma anche della tecnica, del modo di girare, una sorta di memoria del cinema», ha dichiarato  Jia Zhangke durante la conferenza stampa di Cannes.

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