Un rito maoista unisce in matrimonio un giovane Paolo Sorrentino e Margherita Buy prima che quest’ultima lo infilzi con una bandiera uccidendolo. È l’incipit di Cataratte, b-movie prodotto da Bruno Bonomo/Silvio Orlando con cui si apre Il caimano (2006) di Nanni Moretti. Stacco, tredici anni dopo. Una pecora entra nel salotto di Villa Certosa in Sardegna e fissa le immagini di un quiz televisivo sullo schermo, prima di venire uccisa dall’aria condizionata. Inizia così Loro 1 di Sorrentino: come un altro b-movie prodotto da Bonomo, come cioè un altro atto di finzione reificata.
E prima ancora c’è la scritta che anticipa la proiezione, che si premura di avvertire lo spettatore che solo in parte gli eventi descritti dal film sono ispirati a fatti realmente accaduti. Quasi a voler scacciare ogni possibile equivoco (o querela): un’Italia caduta, impotente e irriconoscibile, un’altra “grande bellezza” in cui si aggirano i fantasmi finzionali di un presente (e recente passato) disperato e ridicolo, osservati attraverso questa nuova finestra aperta su un reale impossibile e indecifrabile se non attraverso il filtro di una finzione cinematografica ludica e grottesca. Esattamente come per la parabola del nuovo romanzo di Jep Gambardella o prim’ancora per la sceneggiatura trash di Jasmine Trinca ne Il caimano.
Sono passati quattro anni dal trionfo internazionale de La grande bellezza e dal suo ritratto disincantato e consolatorio dell’Italia (da poco) post-berlusconiana, e sono soprattutto passati tredici anni dal film “berlusconiano” di Moretti. Lì il caimano come figura di un potere arrogante, spregiudicato, di un “divo” della Prima Repubblica, in cui risuonava la domanda “Cavaliere, dove ha preso i soldi?”. Oggi, nel 2018, il Berlusconi di Sorrentino è tutt’altra cosa: una maschera orgiastica e ludica, il corpo senile di un Servillo trasfigurato che riflette le dinamiche di un desiderio infantile, in primo luogo quello del gioco e del sesso, attraverso cui l’individuo (italiano) medio contemporaneo si appropria della verità del mondo. Come quando un irriconoscibile Fabrizio Bentivoglio mima il gesto tennistico con il cellulare prima di essere interrotto dalla chiamata di “Lui” che lo convoca in Sardegna. Oppure quando, camminando per i giardini di Villa Certosa, il nipote rimprovera al nonno Silvio di aver calpestato un escremento. “No”, risponde Silvio, “è solo fango”, e comunque, aggiunge, quello che appare vero deve sempre essere negato. Perché la verità, come il cinema, è un gesto gratuito, una fake news attraverso cui negare o affermare la realtà.
Ma proprio qui risiede un aspetto importante del film e del cinema di Sorrentino in generale. Per Sorrentino infatti il potere è sempre un dispositivo dissipatore, il fantasma-feticcio su cui sono proiettate le pulsioni e le utopie di un popolo (e cinema) bambino, che ambisce a liberare le proprie spinte vitali da qualsiasi istanza di controllo razionale attraverso l’affermazione di una nuova forma di verità. Le figure del cardinale Herlitzka de La grande bellezza, in Loro 1 citato nuovamente, il politico Bentivoglio, la capo-entraineuse Kira (Kasia Smutniak), o ancora prima la caricatura ludico-grottesca di Andreotti. Oppure il personaggio-Dio che, nascosto da un asciugamano, si incontra con la giovane ragazza nell’anonimato di una clinica-bordello. Quello del potere è cioè un movimento regressivo in cui si consuma la reificazione del possesso: possesso del potere stesso (Il divo) o del corpo femminile, reale e riprodotto dai dispositivi mediali (da Le conseguenze dell’amore a Youth).
Ecco allora che Berlusconi sembrerebbe essere l’archetipo di tutto il cinema di Sorrentino, non soltanto di Loro. Un cinema-simulacro, come l’immagine del Cavaliere, figlio di quel “Sessantotto realizzato” di cui parlava Mario Perniola qualche anno fa; un corpus cinematografico commedico, tipicamente italiano pur dentro la sua potenza immaginaria internazionale, che ha fatto tanto della deregolamentazione di qualsiasi sistema estetico (in nome di un vitalismo filmico innegabile, qui più che in opere precedenti) quanto del rifiuto di qualsiasi forma di autorità cinematografica, il proprio atto genitivo.
Ma dentro questo orizzonte, è proprio nell’originale e anomalo sdoppiamento di cui vive Loro che sembrerebbe affiorare la possibilità di un reale scarto nella cinematografia di Sorrentino. Loro 1 è infatti la prima parte di un film doppio, che a sua volta si divide in due parti: il racconto di Gianpaolo Tarantini alias Sergio Morra (Riccardo Scamarcio) che, abbandonata Taranto, arriva a Roma con la moglie in cerca di fortuna e solo alla fine lascia spazio a quello di Silvio Berlusconi che, assieme a sua moglie Veronica Lario, vive i giorni della detronizzazione politica confinato nella sua villa in Sardegna. Da un lato il racconto di una presa del potere, dall’altro quello di una regressione infantile, di un ritiro dal mondo, nell’universo chiuso di un eremo-asilo in cui si canta, si gioca e ci si traveste da odalische.
Ed è precisamente nell’indolenza dell’immaginario post-felliniano della prima parte, con cui Sorrentino già descriveva l’esistenza dissipatrice di Jep Gambardella, che emergono le spinte di una fluidità cinematografica importante, quella in cui trova forma l’arrivismo da “Wolf di Piazza di Spagna” di Tarantini (un eccellente Scamarcio). In altre parole, nella riproposizione dell’immaginario felliniano codificato ne La grande bellezza emerge qui la forza di un lavoro modernista sull’immagine, che segue un movimento vitale e ripensa l’intero paradigma asfittico di una parte importante del (suo) cinema contemporaneo. Perché con Loro 1 quello di Sorrentino sembrerebbe essere diventato finalmente un cinema dell’azione, assurgendo a una potenza narrativa significativa, come forse solo in alcuni passaggi di The Young Pope, non a caso ultima sua grande coproduzione americana. E ciò non può che rappresentare un segnale rilevante e incoraggiante.
Riferimenti bibliografici
M. Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato, Mimesis, Milano 2011.