Quando al festival di Cannes 2002 viene proiettato Arca russa (Russkij Kovčeg), una penetrazione all’interno dell’Ermitage di San Pietroburgo in un unico piano-sequenza della durata di un’ora e mezza, i cinefili esultano: finalmente il russo Aleksandr (Alexander nei titoli inglesi) Sokurov è riuscito – grazie alla tecnologia digitale, che significa una videocamera HDW-F900 appositamente costruita dalla Sony e un hard disk capace di registrare (in formato non compresso) cento minuti di riprese – a realizzare ciò che non era stato possibile ad Alfred Hitchcock nel 1948. Hitchcock, volendo portare sullo schermo l’opera teatrale di Patrick Hamilton Rope (1929) mantenendo l’aristotelica “unità di tempo”, aveva progettato un’unica ripresa in piano-sequenza (cioè senza stacchi di girato e senza tagli di montaggio, una sorta di profezia cinematografica della diretta/differita televisiva); ma potendo contare solo sui classici caricatori da 300 metri di pellicola (che consentono dieci minuti di ripresa), aveva dovuto assemblare vari pezzi tentando di occultare i punti di giunzione. Arca russa, andando oltre tutte le performance moderniste tipo Welles (l’incipit di L’infernale Quinlan, 1958) e Antonioni (il finale di Professione: reporter, 1975), riesce dopo più di mezzo secolo a materializzare il sogno di un film-sequenza; e questo non manovrando un gruppetto di attori all’interno di un appartamento ricostruito in studio, ma usando una troupe di 4500 persone (gli 867 attori e le 3 orchestre del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, più 22 assistenti alla regia) per muoversi nel complesso interni/esterni dell’Ermitage producendo in tempo reale i novanta minuti del girato (giorno dell’esecuzione: il 23 dicembre del 2001, pochi mesi dopo l’Undici Settembre).
All’epoca Sokurov è già un autore di rilievo non solo in Russia (premiato nel 1997 come Artista emerito della Federazione Russa) ma anche all’estero, grazie soprattutto ai suoi film sui potenti del Novecento: Moloch (1999) su Hitler e Toro (2001) su Lenin. Ma certo il film del 2002 è un evento storico, nel senso che stabilisce un prima e un dopo Arca russa: il prima è tutta la sperimentazione tecnica sul piano-sequenza come mobilità assoluta della macchina da presa (ad esempio la steadycam usata da Kubrick in Shining, 1980) ed eventualmente come fake ottenuto con gli effetti speciali computerizzati (ad esempio The Orchestra, 1990, di Zbig Rybczynski); il dopo è il proliferare di film-sequenza più o meno fake (Birdman, Iñarritu 2014; Victoria, Schipper 2015; Utøya july 22, Poppe 2018; 1917, Mendes 2019) compreso un documentario di cinque ore sul museo (Ermitazh, Aksinia Gog 2020) prodotto dalla Apple per dimostrare le possibilità dell’iPhone 11 Pro Max.
Si tratta della performance pensata per entrare di forza e irreversibilmente nel canone cinematografico? Se il film-sequenza di Hitchcock (in Italia Nodo alla gola ma anche Cocktail per un cadavere) si muove nello spazio della fiction (lineare e annodato come la corda del titolo originale) per riprodurre la continuità visiva dello spettatore teatrale, il film-sequenza di Sokurov si muove nell’ambiente reale dell’Ermitage (non solo museo ma residenza storica degli zar, struttura architettonicamente labirintica su più livelli) come se si trattasse del cono di Bergson utilizzato da Deleuze per ricondurre l’immagine-tempo alla coesistenza di “punte di presente” e “falde di passato”. E infatti le due guide di questo tour cineturistico sono due attanti ugualmente virtuali ma uno “presente” e l’altro “passato”: lo stesso Sokurov in variante acusmatica, udibile ma non visibile (è sua la soggettiva soggiacente all’intero piano-sequenza); e poi il marchese Astolphe de Custine (1790-1857), “il Tocqueville dell’est” i cui quattro volumi di La Russie en 1839 (tr. it. parziale Lettere dalla Russia, Adelphi 2015) hanno costituito il contraltare del classico sociologico La democrazia in America (1835).
Questo improbabile Custine – che si ritrova a parlare russo (l’attore è Sergei Dontsov alias Sergej Drejden, già protagonista di Insalata russa, Mamin 1994) e a visitare per la prima volta l’Ermitage (in una falda di passato che sarebbe dunque l’epoca dell’imperatore Nicola I Romanov, “gendarme d’Europa” votato alla triade ortodossia-autocrazia-nazionalismo ma anche fondatore dell’Università di Kiev) – si permette ovviamente vari commenti ironici sulla Russia, salvo pentirsi al cospetto della bellezza conservata nel Palazzo d’Inverno: “Ho avuto certamente torto a biasimare i vostri zar, a rimproverare loro tutto questo lusso, questo sfarzo, questa ricchezza, anche se erano dei tiranni”. D’altro canto, anche l’attante che stiamo chiamando Sokurov è pronto alle frasi icastiche, dando vita a dialoghi di questo genere:
Custine: “E ditemi, che sistema avete attualmente, una repubblica?” Sokurov: “Non saprei dire” C: “Francamente non ho mai creduto che quello repubblicano fosse il sistema più adatto per un paese vasto come la Russia” S: “Voi europei siete dei democratici che rimpiangono la monarchia”.
Ma l’affermazione più fatidica sui rapporti fra arte e potere la pronuncia direttamente il direttore dell’Ermitage: “Le autorità vogliono le ghiande, non la quercia. Di cosa si nutra l’albero della cultura non lo sanno né lo vogliono sapere. Ma se l’albero cade, allora finisce anche il loro potere. E quello che non capiscono è che dopo non ci sarà più niente”.
A quali autorità si stanno rivolgendo questi rappresentanti del mondo della cultura e dell’arte? Proviamo a controllare la cronologia degli eventi: nel marzo 2000 viene eletto presidente della Federazione Russa (su indicazione del dimissionario Eltsin) l’ex dirigente del KGB Vladimir Putin, nato e cresciuto a San Pietroburgo quando ancora si chiamava Leningrado; immediatamente dopo Sokurov progetta di girare non solo a San Pietroburgo ma più precisamente nell’Ermitage presentato come l’Arca di Noé, destinata a condurre la Russia oltre il diluvio universale del comunismo (“una Convenzione durata ottanta anni, una vera rivoluzione, una storia triste, molto triste”) facendola galleggiare sulle acque che si vedono nell’immagine di chiusura (sarebbe il fiume Neva, ma la voce del narratore fuori campo così conclude: “Guardi. C’è il mare tutto intorno. Dovremo navigare per sempre. E vivere per sempre”).
Se Diderot ha discusso con Caterina II proprio nel suo petit ermitage, forse Sokurov è partito da lì per provare a influenzare il coetaneo Putin, con il quale negli anni successivi si alterneranno buoni rapporti (il finanziamento statale per Faust, 2011, la chiusura di un’indagine per appropriazione indebita) e scontri in pubblico (nel dicembre 2021, sul tema delicatissimo del separatismo del Caucaso). Molto li separa, evidentemente, ma forse Arca russa è il momento in cui ancora è possibile ragionare su come essere anticomunisti nel Duemila facendo tesoro dell’Ottocento. D’altronde, qual è il significato politico di un film-sequenza all’interno della storia del cinema russo se non la contestazione radicale di quella “scuola del montaggio” che è stata l’essenza estetica del cinema sovietico? La vera intenzione di Arca russa non è di andare oltre Hitchcock bensì di tornare a un futuro senza Ejzenštejn. Tecnica è ideologia, si diceva nei godardiani anni sessanta; è una falda teorica tutta ancora da scrivere, se avessimo una memoria vasta come un impero.