Per un approccio gramsciano allo ius soli
Sta per piovere (Rashid, 2013)

Sulla bocca di molti per almeno un semestre, fino al suo definitivo affossamento in Senato nel dicembre 2017, il disegno di legge n. 2092 approvato dalla Camera nel 2015 – portatore di un principio di ius soli e di ius culturae molto meno radicale di com’è stato generalmente recepito dall’opinione pubblica – sembra essere stato ulteriormente accantonato dalle politiche adottate dall’attuale governo. In realtà, la logica dell’emergenza che sottende alle iniziative di “chiusura dei porti” e ai provvedimenti correlati non è molto diversa da quella che si è opposta alla riforma della legge di cittadinanza, articolandosi intorno a un medesimo discorso, ora apertamente xenofobo e razzista, ora securitario. Lo stesso securitarismo, tuttavia, è strutturalmente legato alla riproduzione dell’illegalità e allo sfruttamento economico dell’immigrazione, come del resto hanno indicato nella loro opera Étienne Balibar, Sandro Mezzadra e altri studiosi.

“Prime” e “seconde” (e terze, quarte, ecc.) generazioni della migrazione sono infatti attraversate da una serie di questioni che sono riconducibili ad un medesimo “principio di inclusione differenziale” – secondo la definizione adottata da Sandro Mezzadra e Brett Neilson in Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2014) – e che sono storicamente presenti da molto tempo prima dell’istituzione dell’ultima “emergenza” e, in generale, di ogni emergenza. È tuttavia per le cosiddette “seconde generazioni” – termine sicuramente ambiguo, perché legato alla permanenza di un’esperienza rovesciata nello stigma (come succede anche per la possibile alternativa terminologica: “post-migranti”) – che la cittadinanza, come recita il titolo dell’ultimo saggio di De Franceschi (2018), si configura come specifico luogo di lotta, a causa delle situazioni conflittuali e non di rado drammatiche prodotte dalla legislazione tuttora vigente in Italia.

De Franceschi affronta questo tema di fondamentale importanza politica e culturale dalla prospettiva dello studioso di cinema, affiancando efficacemente la nozione di “cittadinanza visuale” – proposta per la prima volta da Ariella Azoulay per la fotografia, ma utilmente applicabile anche al cinema e alla serialità televisiva (e post-televisiva) – a quelle, già consolidate, di cittadinanza formale e materiale. Non si tratta, come afferma l’autore probabilmente con eccessiva modestia, di «un’ars combinatoria non so se più eccentrica o eretica sul piano metodologico» (p. 19), bensì di un indispensabile strumento critico e metodologico per approfondire la conoscenza del tema al di là dei singoli posizionamenti politici o, come più spesso accade, dei narcisismi social. La presenza e la visibilità delle “seconde generazioni” nel cinema italiano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri risulta, anzi, di fondamentale importanza per poter analizzare criticamente le questioni sul tavolo, disponendo di una maggior consapevolezza delle sue diverse rappresentazioni nel corso del tempo.

La prospettiva adottata da De Franceschi è al tempo stesso molto accorta dal punto di vista dello specifico disciplinare – l’analisi e critica della produzione filmica – e vasta e articolata dal punto di vista teorico. Il primo capitolo, infatti, è significativamente intitolato (Ri)costruire l’egemonia e propone di adottare uno sguardo gramsciano sulle questioni che verranno affrontate. Mossa forse sorprendente per chi non è avvezzo alla materia e alle ricerche accademiche in tema, ma che è certamente giustificata dalla profondità diacronica e sincronica dell’oggetto di studio, nonché dalla necessità di una presa di posizione che è costitutivamente, ma non per questo banalmente, politica. In particolare, De Franceschi raccoglie l’invito di Miguel Mellino (pubblicato sullo Speciale Antonio Gramsci del Manifesto del 18 maggio 2017) a far uscire dalle nicchie specialistiche dell’accademia, senza per questo accondiscendere all’uso selettivo e non organico, spesso depoliticizzato, dell’eredità gramsciana che una parte della stessa vulgata accademica ha promosso.

Anche De Franceschi si attiene all’uso operativo di alcuni concetti-cardine del pensiero gramsciano (in particolare: sarditudine, Meridione, filosofia della prassi, intellettuali ed egemonia e subalternità), che si rivela particolarmente efficace, almeno a livello euristico, ai fini della sua proposta più interessante, ossia la costruzione, affidata al medio-lungo periodo e a una strategia di articolazione non identitaria del soggetto di classe (recuperata dalla pur discutibile lezione gramsciana di Stuart Hall), di un “blocco storico” che sia capace di trasformare profondamente la società italiana. Anche l’enfasi che l’autore pone sulla ricerca, da parte di Gramsci, di un cosmopolitismo che non sia quello, deteriore, della borghesia liberale italiana si rivela molto utile nel contrastare la recente appropriazione manipolatoria di questo concetto gramsciano in chiave “anti-immigrazionista”.

Allo stesso modo, e per quanto De Franceschi si posizioni in modo estremamente chiaro in merito, l’uso operativo dell’eredità gramsciana non può porsi del tutto al di là del confronto con il dibattito interno agli studi gramsciani, proponendo così una bibliografia ecumenica che va, appunto, da Miguel Mellino a Stuart Hall, passando per gli studi gramsciani di Raul Mordenti e di scuola marxista. In questo senso, e approfittando della stessa apertura del libro a nuovi contributi, vi sono molte possibilità di approfondimento di questo che, semplificando, si potrebbe definire un approccio gramsciano allo ius soli: per Gramsci, ad esempio, l’affermazione di intellettuali che non sono più tradizionali ma organici avviene non soltanto in quanto «espressione di strati emergenti» (p. 34), ma anche per la loro organicità alle relazioni politico-economiche che ne determinano il posizionamento sociale. Già presente a tratti nel libro, una simile analisi di tradizione marxista – non soltanto, quindi, gramsciana – potrebbe ulteriormente consolidare le riflessioni sulla cittadinanza come luogo di lotta, chiarendone la differenza trasformatrice rispetto all’implementazione di un’agenda politica che sia esclusivamente basata sui diritti civili individuali (obiettivo che De Franceschi del resto evoca, a p. 45, richiamando analoghe riflessioni di Lea Durante in ambito femminista).

Il secondo capitolo del libro è dedicato a un excursus storico e teorico sul concetto di cittadinanza che risulta particolarmente efficace in senso operativo, soprattutto nella critica del senso comune riguardo al disegno di legge non approvato dal Senato nel 2017, in quanto si sofferma sulla legislazione italiana in materia di cittadinanza e insieme offre un prezioso sguardo comparativo ad altre esperienze normative europee. Particolarmente rilevante lo spazio dedicato ai «cantieri di cittadinanza sul modello della guerra di movimento» gramsciana suggeriti da Balibar, «attraverso cioè la costruzione di una nuova egemonia storica, di una nuova modalità di pensiero o senso comune collettivo» (Balibar 2004); risultano invece slegati da questa prospettiva, restando comunque di primario interesse per la loro effettiva esistenza e portata, gli “Atti di cittadinanza” individuati nel 2008 da Engin Isin e Greg Nielsen come azioni politiche (da parte dei migranti, delle “seconde generazioni”, ecc.) che non presuppongono la cittadinanza come orizzonte potenziale, ma ravvivano, di fatto, il conflitto politico che la riguarda.

La terza parte del libro è dedicata all’analisi, sempre abbondante e puntuale, del percorso della “cittadinanza visuale” nel cinema e nella produzione televisiva/post-televisiva italiana, secondo un percorso che si articola in base a una preziosa, e per nulla deterministica, divisione temporale in tre tappe: anticipazioni e prime articolazioni della cittadinanza visuale (1949-2005); narrazioni delle rivendicazioni come nuovi soggetti (2006-2013); narrazioni dell’individuazione e dell’inclusione differenziale (2014-2017). Diversamente da certa vulgata postcoloniale, non si tratta di ricercare l’aderenza alla verità o alla realtà di tale rappresentazioni, ricadendo, da un lato, nell’adesione ingenua a un’estetica naturalistica e, dall’altro, nella riproposizione dell’onere della rappresentatività per i soggetti che sono, volenti o nolenti, portatori di marche di alterità. Ad essere messo in evidenza è piuttosto il “regime di verità” in base al quale queste rappresentazioni sono organizzate, costruendo il “colore della nazione” italiana (ancora legato a una concezione coloniale di bianchezza) e, insieme ad esso, tutte le altre linee di inclusione differenziale che tutt’oggi ne attraversano la società. Insieme e al di là della mera costruzione e decostruzione dello stereotipo, De Franceschi analizza approfonditamente anche le modalità enunciative proprie di ogni film o produzione seriale, le dinamiche della produzione e della distribuzione dei prodotti cinematografici e, last but not least, le politiche attoriali.

È dunque rifuggendo da ogni semplificazione dicotomica (buoni/cattivi, ma anche autoctoni/alloctoni, identità/diversità, ecc.), che il libro di De Franceschi presenta la complessità delle questioni messe sul tavolo, offrendo una critica precisa e molto stimolante delle modalità con le quali tali questioni sono state portate sullo schermo.

Riferimenti bibliografici
E. Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, Manifestolibri, Roma, 2004.
L. De Franceschi, La cittadinanza come luogo di lotta. Le seconde generazioni in Italia fra cinema e serialità, Aracne editrice, Canterano (RM) 2018.
E. Isin, G. M. Nielsen (a cura di), Acts of Citizenship, Zed Books, Londra/New York 2008.
M. Mellino, “La gabbia coloniale del “subalterno”, il manifesto, 18 maggio 2017, p. 5.
S. Mezzadra e B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2014.

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