Nel cinema di Richard Linklater l’evento – se per “evento” intendiamo ciò che sconvolge una vita producendo una frattura momentanea nella sua linearità – è quasi sempre utilizzato come catalizzatore di una narrazione che con questo evento non si identifica, al contrario ne trae nutrimento per andare altrove o, eventualmente, prepararsi al suo accadere. Detto altrimenti, Linklater sembra interessato al movimento orbitale della vita intorno ad un accadimento preciso, spesso determinante nelle esistenze dei suoi protagonisti, piuttosto che al fatto in sé e per sé.
Questo, se ci pensiamo, è alla base della trilogia che lo ha reso famoso al grande pubblico – i “tre Before” (Sunrise, Sunset e Midnight) – in cui se da una parte l’evento è rappresentato dall’incontro tra i due protagonisti, dall’altra il suo verificarsi viene costantemente differito, a partire da una decisione di rivedersi che fallisce miseramente costringendo per molti anni Jess e Céline ad incontrarsi sì, ma guardando indietro verso qualcosa che non è accaduto e avanti verso qualcosa che desiderano che finalmente si realizzi. Stessa cosa in Waking life, in cui il viaggio del protagonista non è altro che un incedere trasognato attraverso parole e incontri che lo accompagnano verso quello che, insieme alla nascita, è l’evento per eccellenza, la morte. Ma anche in un film non abbastanza menzionato come il recente Last Flag Flying, in cui la dolorosa dipartita di un figlio diventa il termine “post quem” per il ritrovarsi di tre veterani del Vietnam che devono riportarne le spoglie a casa. In tutti questi casi la temporalità che interessa il regista è quella del “prima”, del “dopo”, del “tra”, più che quella del “qui ed ora”. E d’altronde di cosa parliamo quando nominiamo il tempo del “tra”, se non di quello interstiziale in cui a manifestarsi, in mezzo alle cesure che scandiscono ciascuna esistenza segnandone il cammino, è essenzialmente la vita nel suo naturale e quotidiano scorrimento?
Ecco perché, nel lavoro di Linklater, l’alternativa al raccontare gli spazi “di intervallo” nelle vite dei suoi personaggi diventa facilmente il tentativo di catturare attraverso il cinema l’unità spazio-temporale dell’azione – una singola giornata, una singola serata – o persino, in Boyhood, il passaggio naturale del tempo su corpi attoriali che crescono con il film e ambiscono ad un’interezza nella rappresentazione che intrinsecamente rinnega la concezione di storia come “racconto di qualcosa”. Raccontare tutto, aspettare pazientemente che il tempo si deponga (al suo ritmo) sulla narrazione filmica, significa togliersi dalla potenza accentratrice dell’evento e girargli intorno aspettandone i frutti.
L’ultimo film del regista, Apollo 10 e mezzo, sceglie uno degli eventi per eccellenza impressi nella memoria collettiva, l’allunaggio, e ancora una volta, qui per di più in forma autobiografica, ne ricostruisce le increspature della vita che lo precedono e si allontanano progressivamente dal centro, disegnando una figurazione narrativa che si sviluppa in modo concentrico intorno al suo accadere. Prima che gli astronauti della NASA sbarchino sulla luna – un quarto “before” – c’è allora, per tre quarti del film, il racconto della vita quotidiana a Houston della famiglia Linklater: i giardini ben curati, i pasti liofilizzati, il grande stadio in cui per la prima volta sui tabelloni appaiono scritte psichedeliche che seguono le partite, i parchi avventura, le sale da gioco, i gusti esotici in gelateria (perché non si deve scegliere sempre “vaniglia”), le lezioni di scienza a scuola, gli sport violenti, le serate passate con i pop-corn davanti a Dark Shadows.
Del resto, il ’69 è anche l’anno di Woodstock, dell’LSD, del primo contatto tra due computer della linea Arpanet (diretta antenata di Internet). L’arrivo sulla superficie lunare potremmo dire è anzi il coronamento (o l’altra faccia) di un delirio di onnipotenza dell’uomo dovuto alle straordinarie evoluzioni della tecnica – che coinvolge naturalmente anche la sfera politica: il discorso di Kennedy al Congresso in cui si impegna con il suo popolo che “saranno i primi” a sbarcare sul satellite, la lotta usurante alla conquista dello spazio con la Russia –, e al contempo il riflesso di uno “sballamento” consumista che permette agli adolescenti e agli adulti di fluttuare in un mondo a cavallo tra finzione e realtà, storditi da una mancanza di gravità in questo caso tutta psichica – con le agghiaccianti derive che questo comporta, come il delitto Manson, a poche settimane dall’allunaggio.
La voce autobiografica di Linklater, recitata in fuori campo da uno dei suoi attori-feticcio, Jack Black, si àncora (come succedeva in Waking life) ad una forma animata che è in grado ben più delle riprese reali di riprodurne a ritmo serrato il racconto, condensando in appena un’ora e mezza una quantità di immagini e di dettagli che alla cinepresa sarebbero inesorabilmente sfuggiti. L’animazione serve qui – come accade spesso – da specchio ad un discorso verbale monologante che ha bisogno di continui appigli, di un montaggio forsennato, di costanti figurazioni dei suoi contenuti. Non si tratta dunque tanto di una tecnica scelta come nuova sperimentazione dell’immagine, quanto della possibilità formale per il regista di affondare nella propria memoria visiva – dai piatti cucinati dalla mamma alle smorfie dei fratelli, dalle lattine di birra del padre agli oggetti della propria cameretta riprodotti in termini quasi maniacali. In altre parole, la forma animata fa sì che il film possa spingersi – questa volta non in termini temporali ma formali – verso una mimesi quanto più possibile vicina alla realtà dei propri ricordi, afferrandoli in una interezza che non si dimostra in grado di scegliere un solo aspetto – un solo evento – del proprio passato ma che, piuttosto, scarica dentro alla rappresentazione, fino a saturarne lo spazio, tutti gli elementi figurali a propria disposizione.
E d’altronde la decisione di utilizzare per la seconda volta la tecnica del rotoscopio sulle figure umane (che prevede il filmarle nella realtà per poi ricalcarle con il disegno) sembra realizzare, ad un diverso livello, la volontà di indugiare al di qua di una realtà evenemenziale da cui ci si distanzia anche solo di un grado per permettere ad essa di influenzare il racconto senza tuttavia mai combaciare con esso. Anche la forma narrativa scelta, come il suo contenuto, si ferma un attimo prima di coincidere con l’evento che sta mettendo in scena.
Non ci sorprende affatto dunque che quando il cerchio si chiude e arriviamo di fronte all’evento dell’allunaggio le immagini di quest’ultimo – in parte anche di repertorio – si sovrappongano a quelle del sogno del piccolo Richard, che immagina di essere il bambino prescelto per atterrare in anteprima sulla luna, “mezza volta” prima (di nuovo, “before”) della missione Apollo 11. Né ci lascia in alcun modo perplessi il fatto che, dopo avere atteso la sua immagine per anni, mesi, settimane, giorni, il giovane Linklater alla luna preferisca il luna park, allontanandosi da casa nel giorno fatidico e rappresentandosi nella serata del 20 luglio di fronte alla televisione stremato dalle montagne russe e incapace di tenere aperti gli occhi di fronte al monitor, tanto da essere portato di peso dalla mamma nella sua camera a dormire. L’assopimento del ragazzo sopraggiunge a rendere uno degli accadimenti più importanti del Novecento definitivamente irrilevante ai fini della storia che il regista vuole raccontarci. L’evento infine arriva, ma il racconto del “prima” non gli resiste e si abbandona al sonno, al lento e naturale scorrere di una vita che avanzerà inesorabile tra un allunaggio e l’altro.
Apollo 10 e mezzo. Regia: Richard Linklater; sceneggiatura: Richard Linklater; montaggio: Sandra Adair; fotografia: Shane F. Kelly; musiche: Alan Tyler; interpreti: Milo Coy, Jack Black, Zachary Levi, Glen Powell, Josh Wiggins, Lee Eddy, Bill Wise, John Kaler; produzione: Minnow Mountain, Submarine, Detour Filmproduction, Netflix Animation, Soundcrafter; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 98′; anno: 2022.