A Palazzo Merulana si è inaugurata la densa mostra Antonio Donghi. La magia del silenzio, dedicata all’omonimo artista romano della prima metà del Novecento. Il Palazzo, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, raccoglie un’importante collezione di opere dell’arte italiana della prima metà del Novecento, con particolare attenzione alla scuola romana. Del mondo artistico romano fra gli anni venti e quaranta del secolo scorso Donghi è stato uno dei protagonisti indiscussi. Forse ero influenzato dal giro preliminare nel salone dove è esposta la collezione, in cui risaltano gli Scipione, i Mafai, i De Chirico, i Capogrossi, i Casorati e i Balla fra gli altri.

O forse sarà stato perché, arrivato con buon anticipo, avevo fatto un salto alla Chiesa di San Clemente per rivedere gli affreschi di Masolino da Panicale, lì conservati, prima di dirigermi verso la mostra. Ma l’impressione più forte che mi ha lasciato l’immersione nella pittura di Donghi è stata quella di uno sforzo — anche se la serenità delle immagini non lascia trasparire sofferenza — tutto teso a usare lo stile della tradizione come un linguaggio d’avanguardia.

Lo afferma l’artista stesso in una dichiarazione del 1935, riportata a ragione in uno dei pannelli informativi della mostra:

«Ho guardato i grandi pittori del passato, senza esagerare, ossia senza prendere motivi di composizione e atteggiamenti. Ho scelto per dipingere tutto ciò che dell’umanità più mi ha colpito per un senso di semplicità nella composizione e nel colore. Nell’esecuzione ho voluto sempre finire, anche con scrupolosità, sperando che l’osservatore potesse leggere con chiarezza quello che io ho visto e sentito».

Il suo è un “bel composto” classico, ma senza manierismi. È un’indagine sulle molteplici sfaccettature dell’umano, condotta però con “semplicità”, senza ipotesi umanistiche da dover confermare o confutare. È una ricerca costante della “chiarezza” dello sguardo e del sentimento comunicato al pubblico. In una parola, è il tentativo di fare del realismo la lingua della modernità

Donghi pratica una pittura figurativa senza mediazioni. Sono figure che occupano il centro del quadro, catturate in pose inusuali, come il giocoliere quasi pronto a entrare in scena che si esibisce in un numero di destrezza con il cilindro. Altre volte queste figure si rivolgono allo spettatore con sguardi misteriosi. Vediamo paesaggi irreali, dove si palesa una natura muta, perfetta, immobile. Oppure vediamo scorci su vie cittadine semivuote, su edifici che sembrano case fantasma, dove al massimo si notano una o due persone intente a eseguire qualche lavoro. 

Nel 1925 il critico tedesco Franz Roh definì questo stile “realismo magico”. È una definizione insufficiente nel nostro caso. Donghi non tenta di far apparire gli aspetti magici del reale. Cerca invece di riabilitare la prospettiva e il disegno come strumenti di indagine della realtà. Molti dei suoi quadri ricordano quanto scrive Walter Benajmin dei paesaggi di Eugène Atget o dei ritratti di August Sander: in essi sembra essere presente una sopravvivenza dell’aura. Ma, ed è questo il punto determinante, Atget e Sander erano fotografi: nelle loro immagini l’aura di mistero o di passato inquietava perché erano immagini scattate da un apparecchio, prese dirette sulla realtà. 

L’arte di Donghi è pittura. Il mistero e la magia qui non sono uno scherzo, o un dono, fatto dall’apparecchio fotografico. Sono una precisa intenzione dell’autore: si tratta di un sistema di segni messo a punto per far apparire relazioni, gesti, azioni. Lo spettatore deve impadronirsi della grammatica necessaria per interpretare questi segni: perché il giovane che regge la civetta da caccia ci guarda, mentre il cacciatore cerca la preda? Perché le due ragazze della Gita in barca ci osservano, una dritto negli occhi e l’altra in tralice, mentre il barcaiolo che le porta scruta il cielo? Bisogna entrare nella realtà del quadro per capirlo; e per capirlo bisogna padroneggiare i segni della pittura. Il potere dell’immagine, direbbe il filosofo e storico dell’arte Louis Marin, è forza messa in riserva nei segni.

L’aura, la magia, sta tutta qui: restituire alla pittura la funzione di descrivere la realtà, proprio nell’epoca in cui si erano ormai pienamente affermati il cinema e la fotografia. Non a caso Donghi era un appassionato, anzi si considerava un esperto di cinema, come si può evincere dall’ottimo catalogo della mostra. Le sue opere ci dicono, negli anni trenta del Novecento ma in qualche modo anche oggi, che sono maturi i tempi per restituire alla pittura il suo compito di indagatrice del reale accanto al cinema e alla fotografia. Non c’è un medium che, con i suoi linguaggi e le sue tecniche, possa esaurire una volta per tutte il discorso sulla realtà. Ci sono media, ed è il caso del cinema e della fotografia, che operano vere e proprie rivoluzioni nel nostro modo di percepire e rappresentare la realtà. Poi viene però il tempo delle negoziazioni, dei posizionamenti, dello stringersi di nuove alleanze.

La pittura di Donghi è segretamente alleata con il cinema. Negli anni trenta dialoga con il cinema del futuro a venire, con il Neorealismo, con la ricerca di una nuova scrittura della realtà. Proprio per questo non può mai perdere di vista i suoi soggetti, i suoi temi, il suo mondo. Proprio per questo il suo Mussolini a cavallo, che con la sua grazia rinascimentale ricorda il monumento equestre a Gattamelata, realizzato da Donatello a Padova, è un pugno nello stomaco nella coscienza storica dello spettatore. Quel dipinto rappresenta proprio ciò che non era la realtà dell’Italia fascista. E proprio perché esce dalla mano di Donghi fa ancora più male. 

Mi sia consentito chiudere con una nota sul luogo dell’esposizione. Palazzo Merulana nasce da una felice sinergia fra la già citata Fondazione Cerasi e CoopCulture. È un esempio, bello ma purtroppo raro a Roma, d’incontro fra mecenatismo privato e lavoro culturale al servizio del pubblico. La sua offerta culturale è ampia e ricca. Ci auguriamo che continui così e che possa essere un esempio presto seguito da altre iniziative.

Antonio Donghi. La magia del silenzio, a cura di Fabio Benzi, Palazzo Merulana, Roma, 9 febbraio 2024 – 26 maggio 2024.

*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è: Antonio Donghi, Gita in barca (1931).

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