Sono passati quattordici anni da Valzer con Bashir, il film d’animazione che ha fatto conoscere Ari Folman al grande pubblico. Il regista, israeliano ex combattente, è stato uno dei primi a considerare la forma animata come possibile integrazione del cinema del reale. Nel lungometraggio del 2008 Folman racconta il massacro di Sabra e Shatila, vissuto in prima persona, attraverso il viaggio animato di se stesso alla disperata ricerca di un ricordo (la giornata della strage) non più sostanziato da immagini. La memoria si costruisce attraverso i racconti orali di chi l’uomo incontra nel suo percorso – commilitoni, amici, familiari, lo psicanalista che lungo tutto il racconto lo aiuta a rielaborare il trauma –, finché il massacro recupera i suoi contorni visivi e lì, spiazzando non poco lo spettatore, l’animazione lascia il posto alle immagini reali, in tutta la loro oscena violenza.
La forma animata, in quanto medium chiamato a ragionare su un evento traumatico, è in grado di autenticare un fatto di guerra, facendo sì che quest’ultimo ritrovi, grazie all’artificio del disegno, la giusta via per riacquisire una presa diretta sulla realtà. Questo ce lo ha mostrato Folman come altri cineasti – Panh, de la Fuente e Nenow, Satrapi, Savona (per citarne alcuni). D’altra parte l’animazione è, da sempre e in primo luogo, uno straordinario veicolo didattico per i più piccoli, e questo torna ad essere in Anna Frank e il diario segreto. Tuttavia, e qui sta la forza dell’ultimo film di Folman, l’aspetto pedagogico può intrecciarsi con uno più marcatamente riflessivo. Si tratta di un film per bambini? Sì – lo stesso non si poteva dire di Valzer con Bashir. Riesce nonostante questo a costruire una eco con il film precedente, proseguendo idealmente la riflessione sul rapporto tra forma animata e memoria iniziata più di un decennio prima? Ci sembra di poter rispondere di nuovo affermativamente.
Folman è figlio di due sopravvissuti di Auschwitz, ed è a loro che dedica il film. Basterebbe questa informazione per capire che il film racconta sì ai più piccoli la storia di Anna Frank, ma al contempo “traumatizza” nella forma animata il vissuto del regista affinché forse, finalmente, quest’ultimo possa congedarsi dalla paura di un trascorso non vissuto in prima persona ma che irreversibilmente (non potrebbe essere altrimenti) segna il suo essere uomo. Non a caso Folman sceglie di rendere protagonista del suo film Kitty, il solo personaggio immaginario della storia di Anna, l’amica che la ragazza scelse per avere compagnia nel rifugio identificandola con le pagine del suo diario, come se le stesse scrivendo delle lettere.
Nel mondo fantasioso dell’animazione la teca che custodisce il diario più celebre della storia, chiusa nel museo in Prinsengracht (Amsterdam), si frantuma in mille pezzi lasciando che dalle pagine si sprigioni un’energia capace di strappare alla carta il suo inchiostro, che a sua volta si trasforma e assume le sembianze di una ragazza dai capelli rossi e dai tratti somatici nordici – tratti che Anna aveva scelto appositamente, affinché la sua “amica” non fosse ebrea e dunque non fosse condannata alla sua stessa sofferenza. Nel film di Folman è Kitty a guidare il racconto, andando alla ricerca di Anna e scoprendo che, se dentro il museo il suo corpo è invisibile all’occhio esterno, quando è fuori, lungo le strade e i canali della città su cui si diverte a pattinare, torna ad essere in carne ed ossa – a patto che, unica condizione, si tenga stretta al diario, che difatti trafuga dal museo diventando costante bersaglio della polizia.
Del racconto di Anna Frank Folman sceglie dunque di animare non tanto (o non solo) la sua protagonista, quanto un puro atto di memoria custodito nelle pagine da lei scritte e affidate ad un corpo parto della sua immaginazione, astrazione dei suoi dolori, dei suoi sogni, delle sue nostalgie. In altre parole, ciò che si trasforma in forma animata è un’entità priva di un corpo reale che, assente dagli eventi dello sterminio come assente fu il regista, non può che circolare nel mondo interrogandosi sul passato e combattendo per un futuro diverso. Kitty ha ricevuto le parole di Anna come, in seconda battuta, metà della popolazione mondiale che ha letto il suo diario. Altro non è allora che l’incarnazione di un lascito che per qualche momento riesce ad individualizzarsi in una figura (il giovane ed energico corpo di una ragazza) per testimoniare del desiderio impellente di ricordare, anche quando il tempo storico si fa inesorabilmente lontano.
La guerra di sterminio viene raccontata dal film attraverso diversi flashback in cui vediamo la fuga nel rifugio di Anna e della sua famiglia, le costrizioni a cui sono sottoposti, il momento della cattura da parte delle SS (rappresentate come giganteschi mostri neri) e dell’arrivo nei campi di lavoro, fino all’epilogo straziante che tutti conosciamo bene. Ma, se è vero che una “messa in immagine” esiste, l’animazione di Folman più radicalmente si muove nella dimensione immaginaria – nel senso letterale in cui a tutti noi è capitato di dire o di pensare “non so, posso solo immaginare” – a cui lui stesso è stato costretto. Immaginare un evento è una responsabilità grande quanto lo è ricordarlo. O meglio, la generazione dei “figli” di una strage può ricordare solo a partire da un lavoro di immaginazione: cosa accadeva realmente nei campi, come si è morti e come si è riusciti a sopravvivere. Kitty in questo è “figlia” quanto Folman, vincolata al nutrimento delle parole con cui Anna ha inciso il suo corpo, illusa di poterla ritrovare, condotta dalla storia ad un percorso retrospettivo in cui comprendere verità dolorose traducendole in memorie indelebili.
Ecco perché, dal momento che ad essere raccontata non è la storia di Anna Frank ma quella di una possibile memoria di Anna Frank, è semplice legare la responsabilità del ricordo a un’azione che miri a non ripetere gli errori del passato. Kitty incontra Peter, ragazzo di strada di cui si innamora, e attraverso di lui conosce la realtà dei nuovi rifugiati, i migranti africani obbligati a vivere sotto i tendoni o nei palazzi abusivi perché non accolti dallo stato. L’allaccio al contemporaneo è quindi leggibile senza dubbio come secondo affondo didattico del film ma anche, più sottilmente, come conferma che siamo nel regime intermedio tra un passato non vissuto in prima persona e un futuro che di quel passato porta nonostante tutto le tracce, un regime di fatti immaginati e di prefigurazioni di quanto rischia di accadere, di memoria e di slancio (mai tardivo) verso una reazione. A farsi sentire è un’eredità lontana e incorporea, come incorporea (nonostante i suoi sforzi) resta Kitty, forza di un ricordo passato e al contempo spinta militante del presente.
“I am here”, recita la scritta tracciata con le bombolette dai migranti sull’aerostato che Kitty propone di far volare sui palazzi in cui sono rifugiati. I bambini leggono quella scritta come risoluzione narrativa – Kitty sta dicendo ai poliziotti che è lì, che finalmente si fa trovare, che restituirà il diario rubato. Noi adulti, ad un diverso livello di complessità, leggiamo forse l’estrema confessione di un regista che ci dice che lui è lì, in quel limbo tra azione reminiscente (verso il passato) e rifigurante (verso il futuro) in cui noi tutti abbiamo il compito di sostare.
Anna Frank e il diario segreto. Regia: Ari Folman; sceneggiatura: Ari Folman; fotografia: Tistan Oliver; montaggio: Nili Feller; musiche: Karen O., Benjamin Goldwasser; produzione: Purple Whale Films, Walking the Dog, Samsa Film, Bridgit Folman Film Gang, Submarine Amsterdam, Le Pacte, Doghouse Films, Magellan Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Belgio, Francia, Israele, Paesi Bassi, Lusssemburgo; durata: 99′; anno: 2022.