Amos Gitai

Filmare determinati luoghi, per poi tornare a filmarli ancora, in un altro tempo, registrando ciò che è rimasto uguale e ciò che invece è cambiato, è un metodo non sistematico, che Amos Gitai ha comunque occasionalmente adottato, anzi, nella sua vasta filmografia si stagliano almeno due opere – ognuna delle quali è una trilogia – in cui si sovrappongono, coincidendo vertiginosamente, il divenire di un luogo, i destini delle persone che lo abitano e il lavoro del tempo: i tre Wadi (1981), Wadi Ten Years Later (1991) e Wadi Grand Canyon (2001), filmati a partire dal 1981 a distanza di dieci anni l’uno dall’altro nel Wadi Rushmia di Haifa, piccola enclave marginale, abitata da arabi ed ebrei, poi definitivamente distrutta nel 2001 per far posto a un grande centro commerciale, e i tre House, anch’essi realizzati con un ampio scarto temporale tra l’uno e l’altro: House (1980), A House In Jerusalem (1998), News From House/News From Home (2006).

 Se i tre Wadi costituivano per Gitai una sorta di sito archeologico, in cui “ogni personaggio rappresenta uno strato particolare di un’archeologia umana”, un microcosmo in cui potevano risuonare molte delle contraddizioni e trasformazioni continue dello stato di Israele e, nello stesso tempo, la presenza fragile e folgorante di un’utopia già realizzata, nella convivenza pacifica di palestinesi ed ebrei, i tre House formano nel loro insieme un cantiere aperto, non soltanto in rapporto all’intreccio e alle derive delle storie e delle persone legate a quel luogo, ma anche, come ha osservato Serge Toubiana, come aperta metafora del lavoro di un regista, che fin da questo suo primo film – House, appunto – ha messo in gioco la sua particolare condizione di architetto prestato al cinema, provando a costruire una nuova modulazione del filmare, che pone in aperta tensione produttiva forma e narrazione, forme dello spazio e forme del tempo, pensiero politico e memoria, Storia e storie, quegli elementi, cioè, che nel loro insieme, lacunoso, discontinuo ma sorprendentemente rigoroso, disegnano la costellazione del suo linguaggio filmico.

Alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes, Amos Gitai ha presentato West of the Jordan River, sorta di doppio itinerario nella realtà viva e nella memoria, compiuto a partire dalla mappa, rivisitata, di Field Diary, girato da Gitai nel 1982, nei mesi immediatamente precedenti l’occupazione israeliana in Libano.  Trentacinque anni dopo quell’esperienza, muovendosi con la libertà e la leggerezza consentita da una piccola troupe, Gitai, senza molte illusioni, ma con una certa ostinata speranza, ritorna in quei luoghi, Gaza, la Cisgiordania, Hebron, Gerusalemme, per farne ancora una volta l’inventario, imprevedibile e poetico, alla ricerca dell’umano, attraverso le parole e gli incontri che, come già allora in Field Diary, vengono riconfigurati in un collage di frammenti che diventano la forma in movimento del film, particolarmente cara a Gitai per la sua affinità con il pensiero di Walter Benjamin, e che dà nello stesso tempo sia il senso della frantumazione reale di un territorio e di un paesaggio continuamente interrotto dai check-point, sia dell’insostenibile situazione di stallo del conflitto.

Sono allora i singoli frammenti che, come le tessere di un mosaico, si fanno carico di restituire in controluce l’immagine molto più vasta di un paese travagliato, oggi guidato da uno dei governi peggiori della sua storia e dove comunque, malgrado tutto, pezzi di società, piccole comunità, singole persone, donne, soprattutto, e bambini, continuano a resistere e a lottare contro lo stato delle cose. Lo fanno le donne, israeliane e palestinesi, che fanno parte del Parents Circle, un gruppo interamente formato da persone che hanno perduto un figlio nel corso del conflitto israelo-palestinese e che mostrano, in uno degli incontri più intensi del film, come il dolore possa venire trasformato e diventare uno strumento di comprensione.

Nel Talmud è scritto che “Dio conta le lacrime delle donne”, ed è allora da queste donne che hanno pianto molto, che possono forse arrivare delle parole nuove, quando dicono della difficoltà e della diffidenza che impedisce di accettare l’Altro e quando spiegano, a partire dalla loro esperienza concreta, che un processo di pace non si compie in un giorno, ma che deve prendere necessariamente degli anni. Lo fanno, in un altro momento prezioso del film, le attiviste di B’Tselem, un gruppo in gran parte formato da donne, mentre imparano a usare la videocamera come strumento di testimonianza e di difesa dalle violazioni dei diritti umani nei territori, da parte dell’esercito israeliano. È questo un passaggio di rara convergenza tra una forma organizzata di conflitto politico che incontra, nell’uso dello zoom e del piano-sequenza, la sintassi del cinema, e che molto ha a che vedere con l’uso fondativo e consapevolmente sperimentale dell’inquadratura lunga, praticato dallo stesso Amos Gitai nei suoi film, usata sia come strategia politica di resistenza sia come messa in questione e infinita interrogazione di un tempo, che in ogni suo film sprofonda sempre in una stratificazione verticale, mai lineare. Al di fuori da qualsiasi intento dogmatico o anche solo semplicemente didattico, dall’incontro con le attiviste di B’Tselem, proviene una vera lezione di cinema che nello stesso tempo sconfina, in chiave godardiana, con una leçons de choses.

A poco a poco, in un film come questo, che del resto, fin dall’inizio, si lascia attraversare, con sorvegliata malinconia, dalle immagini di una celebre intervista fatta dallo stesso Gitai a Yitzhak Rabin all’epoca degli accordi di Oslo, prende corpo, come presenza sempre meno fantasmatica e più che mai reale, la ricostruzione di un territorio altrimenti invisibile, cui si accompagna un tessuto umano fatto di attese, di sconfitte, di speranze, di relazioni, che comunque non si vuole rassegnare all’ineluttabilità di un conflitto, che se a Hebron, può far desiderare a un bambino, con il sorriso negli occhi, di morire da martire, a Gerusalemme mostra nel corso di un torneo di backgammon cui partecipano israeliani e palestinesi, riuniti in un’atmosfera tranquilla, con una piccola orchestra che suona, che una pace realmente condivisa, un altro modo di vivere e un altro mondo, perfino in quei luoghi, è forse ancora possibile da immaginare, semplicemente perché, ad aver occhi per vedere e desiderio di filmare, è già lì.

Riferimenti bibliografici
P. Willemen, The Films of Amos Gitai, BFI, Londra 1993.
S. Toubiana, Il cinema di Amos Gitai. Frontiere e territori, Bruno Mondadori, Milano 2006.

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