A passo lento, in punta di piedi, silenziosamente sbucando da un ingresso laterale, vestito tutto di bianco, Pippo Delbono fa il suo ingresso nella platea a luci accese. Va a sedersi in una delle ultime file, in mezzo agli spettatori. Il vociare del pubblico a poco a poco si dirada, molti si voltano a guardarlo. Il palco è pressocché vuoto, delimitato da tre grandi pareti che assorbiranno poi la luce e il colore, ma sulla destra un piccolo albero rinsecchito, contorto, anch’esso tutto bianco, se ne sta lì, muto, come ad osservarci, quasi i suoi rami piegati ci chiedessero pietà, ascolto, si protendessero verso di noi, implorando qualcosa. Ma cosa? Implorando qualcosa che pare abbiamo tutti dimenticato, un sentimento che mai come oggi, tra odi e guerre, è ignorato, nominato invano, deriso, vilipeso, frainteso, rimosso: il sentimento d’amore.

Comincia così Amore di Pippo Delbono (che è arrivato a Napoli al Teatro Mercadante, dopo aver girato per molti teatri italiani e stranieri in questi anni), una sorta di poema scenico in forma di visioni e canti, una di quelle corali partiture teatrali e musicali con cui l’arte di Delbono ogni volta ci ammalia, ci sorprende, ci cattura, ci colpisce al cuore. Hanno una forma rapsodica, sono come dei palinsesti, dei florilegi, delle variazioni su tema, gli spettacoli di Delbono. Questa volta la temperatura emotiva che declina le forme dell’amore, pulsa secondo un tessuto scenico composto e scomposto per quadri, per accensioni visionarie, per evocazioni, e soprattutto per “canti”, oltre che attraverso il “salmodiare” sussurrato della voce di Delbono, in modo che tutto concorra a immergerci in una atmosfera, un'”aura” di trasognatezza alternativamente assorta, melanconica, struggente, dolorosa oppure festiva e danzante, empatica e desiderante. Tutto ruota intorno alla possibilità e insieme all’impossibilità di dire e insieme figurare l’amore, la sua necessità, il suo respiro, ma anche la sua mancanza, la sua nostalgia, la pulsione ad evitarlo come ad abbracciarlo. E tutto parte da una “terra d’amore”: il Portogallo.

È dall’incontro di Delbono con un produttore teatrale italiano, Renzo Barsotti, attivo in Portogallo che nasce lo stimolo creativo dello spettacolo. Ecco allora che in scena è continuamente convocato il canto, che è quello lusitano del Fado. Le note accorate e la voce dispiegata del Fado punteggiano e si susseguono, sulla chitarra vibrante di Pedro Joia e nel canto lancinante di Miguel Ramos. Se il Tango, come dice Borges, è un pensiero triste che si balla, il Fado è una preghiera, come sulla musica tradizionale del Fado Minor dice Mario Rainho, e ciò che si prega è l’amore. Il Fado trova origine proprio dagli amori perduti, dai brevi amori tra le ragazze di Lisbona e i marinai che sbarcavano al porto della città, quel canto, e il senso di struggente nostalgia, l’indefinita saudade portoghese, quel rimpianto per qualcosa di perduto, il desiderio intenso verso qualcosa di assente, hanno radice nelle storie di amori fugaci tra le donne e i marinai, molti dei quali non tornarono mai più. Si pensa a quelle ragazze lisboete lasciate sole con il loro amore perduto per i marinai che non faranno ritorno, quando, ad apertura dello spettacolo, una lama di luce illumina una giovane donna vestita di rosso, Barbara Wahnon, mentre canta stirando le note che come strozzate in gola erompono nel silenzio. Non c’è musica che la accompagni ed è come se scavasse dentro di sé un tessuto di immagini e ricordi. Così come subito dopo un “a solo” di chitarra fa vibrare con le sue corde quelle della nostra anima.

“Iniziamo col fado che è la musica dell’amore e della nostalgia”, ci dice Delbono, il quale dal fondo della platea, in un “fuoricampo” che è anche un “controcanto”, sillaba, con il suo tono pacato e insieme intensamente empatico, i versi di poeti (da Carlos Drummond De Andrade a Eugénio De Andrade, da Daniel Damàsio Ascensao Filipe a Sophia de Mello Breyner Andresen, da Jacques Prevert a Rainer Maria Rilke e Florbela Espanca) alternati ai ricordi personali. Delbono allora ci appare come un mago Prospero che con il tono incantatorio della sua voce materializza sulla scena, con la stessa materia di cui sono fatti i sogni e i desideri, i ricordi e i racconti, le imago interiori che l’amore suscita e a cui si apprende.

In tale relazione tra l’imago e il procedere dell’innamoramento oppure il “pieno” della memoria d’amore che colma il “vuoto” della perdita dello stesso, sembrano incedere e apparire tanto gli “a soli” (musicali oppure danzati, cantati, monologanti oppure silenziosamente emergenti e stanzianti in scena) quanto i momenti “corali” (che assumono la forma “processionale” o coreutica, o ancora si dispongono in icastiche pittoricità da tableaux vivant). In ciò il carattere proiettivo dello spettacolo, il suo uso di un “montaggio attrazionale” (del resto tipico di Delbono) fatto di “urti” e diffrazioni sonoro-luminose e di schegge allucinatorie, di irrompere e giustapporsi di luce-colore (il rosso dominante contrapposto al bianco e al nero delle ombre) che si attagliano alla struttura “a schermi” della scena (firmata da Joana Villaverde), e che assorbe tanto la pregnanza lirico-melodrammatica che la grana cinematografica (Delbono è anche regista di cinema oltre che ‘metteur en scène’ di opere liriche, entro cui adotta una cifra assolutamente personale ed “extravagante”). La pregnanza lirico-melodrammatica è data ad esempio nei momenti di “a soli” dei racconti, come quello della scrittrice e musicista Aline Frazão che dice e canta tutto lo strazio e l’amore per la sua terra colonizzata, amata e disamata, dimenticata e conquistata, e insieme l’impeto della rivolta, oppure l’avanzare muto in proscenio di una ragazza in un bianco nuziale che si cinge con le mani il ventre gonfio e l’immaginazione “carnale” del suo bambino, o ancora la danza solitaria di una fanciulla sulle note della morna, la musica di Capo Verde, che ci appare come un omaggio alla sua amata Pina Bausch. Ai quali si contrappongono dissimulati rimandi cinematografici: l’albero rinsecchito che riecheggia Sacrificio di Tarkovskij e da cui ascoltiamo la parabola zen del monaco che innaffiò con amore ogni giorno un albero secco finché questo non fiorì, oppure l’immagine della “Mater Matuta” che assisa su un trono nella sua antica sacralità fertile riceve a seno scoperto il dono di collane votive a cingerle il collo e che pare un rimando al Satyricon felliniano, o ancora il ritmo sfrenato della danza messicana della Festa dei Morti con i volti, i teschi e le maschere, che uniscono l’amore giubilatorio all’elaborazione del lutto, e che fa pensare al Que viva Mexico! Ejzenstejniano.

La sintesi e la densità immaginativa dello spettacolo dunque rispecchia ciò che è insito nell‘imago d’amore:

L’imago che assilla l’innamorato, frutto del lavoro dell’immaginazione, è sospesa tra il soggetto e l’oggetto, la bellezza di quest’ultimo e il carattere proiettivo del primo. Solo che questo lavoro rende indiscernibile il ruolo di entrambi […] L’immagine è qualcosa che costantemente viene trascesa. L’immagine tiene in una sospensione ideale un movimento verso l’interiorità (fantasia dell’amante) e uno verso l’esteriorità (bellezza dell’amato) (De Gaetano 2022, pp. 27-28).

In tal senso Amore si muove come un viaggio lungo una geografia che è da un lato interiore e dall’altro esteriore. In trasparenza emergono i contorni del Portogallo, dell’Angola, di Capo Verde, delle terre d’amore e nostalgia, e in filigrana nell’eco della voce di Delbono, nei testi e nelle parole che prendono corpo, e danno corpo al “verbo d’amore” (“Che altro può una creatura se non/tra creature, amare?/ Amare e dimenticare, amare e amar male, amare, disamare, amare? […] Questo è il nostro destino: amore senza limiti, /Amare la nostra stessa carenza d’amore”, dicono i versi di Drummond De Andrade) e si depositano nella sala avvolgendo il pubblico, talvolta nella luce piena della platea e talvolta nel buio denso illuminato solo dall’intermittenza di una semplice lampadina che pende dall’alto, percepiamo l’amore come estremo richiamo a chi è andato perduto e che con il richiamo d’amore può essere richiamato in vita. Quasi la musica, il tono di quella voce, i canti disegnassero una mappa emozionale, una topografia lungo la quale le anime, dei vivi e dei morti, dei nati e degli ancora non nati, degli esseri visibili e degli esseri invisibili, fossero convocati a girare in tondo intorno a quell’albero che da spoglio e inaridito a poco a poco comincia a germogliare corolle di fiori.

C’è un bellissimo libro di Bruce Chatwin, The Songlines (Le vie dei canti, 1987), dove il grande viaggiatore e scrittore mostra come i canti degli aborigeni australiani ripercorrano al contempo la figurazione ancestrale e continuamente riattualizzata dei miti della creazione, del dreamtime ovvero del “tempo del sogno” da cui tutto continuamente scaturisce, e le mappe del territorio, linee immaginarie e insieme concretate nella terra,  che attraversano il suolo dell’intero continente, “vie dei canti” appunto che emanano ciascuna un canto magico e tradizionale, rappresentazione “cantata” e musicale della topografia del cammino che queste vie vanno a comporre, quasi come una partitura.

Ho pensato, assistendo ad Amore (che, come tutti gli spettacoli di Delbono si intesse quasi del ritmo insito in una tramatura rituale, con la sua crittografia di posture, movenze, gesti, sillabazioni di parole, suoni vibratori, danzanti e cantanti) proprio a quel “cammino di canti” che compone la geografia emozionale degli amori perduti, ritrovati, rimpianti, rievocati, resi vivi davanti ai nostri occhi.

Ogni spettacolo di Delbono ha un sottotesto autobiografico, che nella sua intensità e unicità si fa universale. Qui è lui stesso a “nominare”, pudicamente e con una commozione sgomenta, l’elaborazione di un lutto. Lo fa a conclusione, la platea inondata di luce: “Io vengo da un momento tragico della mia vita. Un lutto dell’amore. Un enorme dolore del quale non riesco ancora a parlare. E così lo spettacolo è diventato un canto che cammina costantemente tra amore e dolore, tra la vita e la morte”. Sappiamo ora di chi Delbono sta parlando, non lo nomina, ma noi lo vediamo come fosse ancora lì in scena, come lo è stato tante volte, presenza ineffabile e alata, come un angelo matto e saggio, tenero e allegro: si chiamava Bobò, anima tutelare del teatro di Delbono e artista unico, nel suo stralunato e incantatorio modo di esprimersi e stare in scena.

Come all’inizio, lentamente, con un passo dolce e silenzioso, Delbono si alza e attraversa il teatro in piena luce, sale sul palcoscenico, si dirige verso i rami, ora fioriti, dell’albero bianco che sembrano abbracciarlo, si piega sulle ginocchia, distende il suo corpo su un fianco, posa il capo sul gomito e si addormenta. Il suo collo piegato, il suo abito bianco fanno pensare al canto di un cigno. Una melodia che va a posarsi, leggera, nel luogo dove ci ha condotto il cammino dei canti.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano Le immagini dell’amore, Marsilio, Venezia 2022.
B. Chatwin  Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1987.

Amore. Spettacolo: Pippo Delbono; musiche originali: Pedro Jóia; scene: Joana Villaverde; costumi: Elena Giampaoli; luci: Orlando Bolognesi; interpreti: Dolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Pedro Jóia, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Miguel Ramos, Pepe Robledo, Grazia Spinella, Barbara Wahnon; produzione: Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; durata: 60′; anno: 2025.

*Foto di Estelle Valente.