Ammore e malavita

Come fare a raccontare Napoli senza spettacolarizzarne gli aspetti più folcloristici (una certa pateticità dei caratteri) e quelli più immediatamente e mediaticamente noti (la criminalità)? Con Ammore e malavita i Manetti Bros. affrontano esplicitamente questa domanda e la risposta è certamente paradossale: con un film spettacolare, un action movie a metà tra la sceneggiata e il musical, una commedia in cui la finzione e lo spettacolo vengono continuamente esibiti.

Dopo i titoli di testa la scena si apre con una veduta da cartolina della città dall’alto; la macchina da presa progressivamente si addentra nei vicoli conducendoci all’esterno di una chiesa in cui si sta celebrando un funerale. In una specie di prologo tragicomico, il morto che parla, anzi canta (primo esplicito riferimento popolare rivisitato dei registi), introduce gli elementi essenziali della trama: Nella città piena di briganti sono morto per una pallottola sbagliata e le persone che ora sono qui a piangermi non sono i miei familiari. Ma chi è Don Vincenzo? Il film ripercorrerà i cinque giorni che hanno preceduto il momento del funerale: dopo un agguato Don Vincenzo (Carlo Buccirosso) si fingerà morto (l’idea è della moglie, Claudia Gerini) e uno dei sui più fidati scagnozzi (Ciro, Giampolo Morelli) si troverà costretto a voltargli le spalle pur di non uccidere l’unica persona che potrebbe sconfessare la farsa (Fatima, Serena Rossi). L’amore vincerà sulla malavita, generando una sorta di violenza necessaria (da cui l’action movie) per il trionfo del bene.

Il flashback, da cui prende avvio la trama, è molto più che un mero espediente formale utilizzato per ragioni diegetiche, è una specie di dichiarazione di intenti: il film vuole lavorare con il tempo e i tempi della città, ovvero con il ritmo della sua musica (antica e nuova, la classica e la neo-melodica rivisitate in chiave hollywoodiana) e le diverse stagioni culturali e popolari (dalla sceneggiata di Pino Mauro fino a Gomorra e al realismo seriale, passando per Roberto Amoroso e Francesco Rosi) che come un terreno stratificato continuano ad alimentare e a creare nuove forme di vita filmabili e teatralizzabili.

In questa particolare forma di gioco sul tempo, il riavvolgimento cronologico degli eventi sembra proiettarci in avanti, piuttosto che indietro, in un futuro in cui la proverbiale intraprendenza del popolo napoletano, quella di cui scrivevano già Goethe e Gramsci, ha dato vita ad una nuova (e lecita) forma di business: le visite guidate a Scampia con scippo incluso, che garantiscono “the ultimate touristic experience”. È questa sicuramente una delle sequenze più riuscite dell’intero film che, grazie anche alla lingua (l’inglese misto a napoletano) e alla canzone, con le sue sonorità da disco music anni ’70, proietta immediatamente Napoli, la sua periferia, i suoi nuovi simboli e stereotipi (Le Vele), in una dimensione ibrida, in un tempo che è quello del web e del nuovo capitalismo mediatico in cui l’autenticità dell’esperienza sembra possibile solo nella forma dell’ipermediazione della relazione. Il bersaglio satirico è esplicitamente convocato: Gomorra e soprattutto gli effetti di Gomorra sulla gente, ovvero l’esaltazione e l’intensificazione collettiva di una serie di codici e simboli che la serie ha istituzionalizzato e soprattutto ha veicolato ben oltre i confini, non soltanto regionali, ma nazionali.

Ammore e malavita, tuttavia, continua quel lavoro di ipermediazione che proprio la serie tv di Sollima ha felicemente inaugurato. Se il racconto seriale si concentrava sul realismo delle vicende di cronaca, ipermediate nella forma dell’immagine cinematografica e nell’intreccio della narrazione, da cui scaturisce (proprio come prevede la doppia logica della rimediazione) l’effetto di immediatezza dei personaggi e della storia, il musical dei Manetti Bros. mette da parte la verosimiglianza e agisce sul livello della rappresentazione. Si tratta di un vero e proprio lavoro di ri-spettacolarizzazione, mediato dall’incontro della sceneggiata napoletana con il musical americano e dall’esperienza parodica che guarda alla rete (i The Jackal)  più che al cinema – pensiamo alla performance di Claudia Gerini, continuamente sopra le righe, come in una sorta di parodia di quella che ormai può essere considerata un’icona del potere camorristico declinato al femminile, ovvero la Donna Imma di Maria Pia Calzone.

In questo lavoro di ri-spettacolarizzazione ogni elemento è una citazione, un rimando, l’esibizione spettacolare e ironica di alcuni dei frammenti di quel mosaico multicolore che compone l’immaginario della città. Naturalmente, l’elemento principale in tale operazione è la musica, rappresentata autorevolmente da Raiz e Franco Ricciardi (ovvero due esponenti della nuova scena napoletana) e da un suono sempre misto, ibrido, che, da un lato, è profondamente radicato nella tradizione e dall’altro è costitutivamente rivolto altrove, contaminato da sonorità nuove e lontane. Napoli guarda all’America ed è significativa, in questo senso, la scena dell’ultimo confronto tra Ciro e Rosario, interpretato per l’appunto da Raiz, in cui l’estrema pateticità dell’incontro con il traditore (il tradimento è uno degli elementi chiave della sceneggiata) viene ironicamente rovesciata grazie ad un riferimento più o meno esplicito al video di Thriller di Michael Jackson. Ma anche la parrucca afro indossata da Serena Rossi sembra essere un omaggio alla musica e in particolare a quella fase della storia della musica napoletana che va sotto il nome di Neapolitan Power (nome dichiaratamente mutuato dal movimento Black Power) in cui i suoni del Mediterraneo vengono mescolati con il blues e la black music, una “musica militante”, in cui si incarna uno sguardo disincantato sulla città e sulle sue problematiche, ma in cui si rinnova ogni volta e sempre il legame e l’appartenenza alla terra.

Non c’è spazio, dunque, in Ammore e malavita per il realismo cinematografico – e una delle ultime scene, quella della finta sparatoria e della conseguente spiegazione di come sia stata realizzata, sembrerebbe proprio voler smascherare il carattere illusorio di ciò che sembra vero; c’è spazio solo per l’esibizione della spettacolarità della finzione che, esclusivamente a queste condizioni, può permettersi un lieto fine. Eppure in questa operazione di ribaltamento dei valori e della realtà, il film coglie un’autenticità della città, rappresentata dalla pienezza dei suoi colori e dalla forza della passione dei sentimenti che risuonano con intensità nella sua musica.

Riferimenti bibliografici
J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini, Milano 2003.
M. Ravveduto, Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici, Liguori, Napoli 2007.
D. Sanzone, Camorra sound. ‘O sistema nella canzone popolare napoletana tra giustificazioni, esaltazioni e condanna, Magenes, Milano 2014.

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