La sensazione che il centenario di Robert Altman dica poco ai non cinefili è piuttosto netta. Nato 100 anni fa a pochi giorni di distanza da Sam Peckinpah, Altman restituisce al cinema contemporaneo un’eredità meno vistosa di quella del collega – la cui estetica della violenza (sebbene spesso equivocata) ha nutrito parecchi registi del postmoderno e i cui cult movie (Il mucchio selvaggio e Cane di paglia sopra tutti) hanno schiere di fan agguerriti. Certo, nessuno nega che M*A*S*H (1970) sia a modo suo un film di culto per una generazione, e nessuno può pensare che Il lungo addio (1972) o Nashville (1975) siano finiti nel dimenticatoio. Ma è sotto gli occhi di tutti la differenza di fascino oltre quarant’anni dopo e soprattutto il ruolo testardo e unico che Altman ha avuto nella New Hollywood, essendo un regista poco incline a fare tesoro delle mode momentanee e altrettanto poco interessato a generare un seguito in grado di superare i decenni.

Questa osticità di Altman era del resto già rinvenuta da Franco La Polla, massimo conoscitore e divulgatore del “nuovo cinema americano” degli anni sessanta/settanta. Poco entusiasta di M*A*S*H all’epoca, La Polla divenne uno dei più lucidi analisti del regista americano, anche ben oltre l’epoca d’oro. Anzi, ancora nel 2000 – in un articolo che faceva da bilancio a una carriera che si sarebbe conclusa pochi anni dopo col testamentario (in tutti i sensi) Radio America (2006) – La Polla scriveva parole che riportiamo per intero, tanto sono perfette e ideali per comprendere il cinema altmaniano:

Altman ha percepito prima di ogni altro la nuova atmosfera e l'ha presentata nei termini a lui più congeniali. Egli ha avvertito la crisi dell'identità che travagliava e ancora travaglia la nostra contemporaneità. Per questo già nei suoi primi film si moltiplicano i nomi (le varie Barbara di California Poker, ad esempio), si articola un medesimo brano musicale secondo gli stili più diversi e sempre adeguati alla situazione mostrata sullo schermo (la canzone titolare in Il lungo addio, ad esempio), si amplia a proporzioni d'affresco riquadro senza che nessun personaggio vi venga proposto come protagonista ma soltanto come tessera di un enorme mosaico (Nashville, per esempio), si organizza il tema centrale costruendovi ogni volta attorno elementi di diversione che non ne permettono la piena visione (le rapine in Gang, ad esempio), si monta un intero e lungo film attraverso frammenti minimi narrativamente non connessi in modo da bloccare sul nascere l'identificazione con i personaggi e le situazioni senza che per questo ne venga infirmato un giudizio morale (America oggi, ad esempio). Tutto insomma nella sua opera contraddice le usuali strutture costruttive e ricettive, tutto emerge come un immenso sforzo di rivedere i canoni cui ci aveva abituato un cinema che non è più e che pure noi continuavamo a pensare vivo. Altman si è preso sulle spalle il difficile compito di traghettarci verso altre dimensioni della narratività cinematografica, e c'è riuscito nonostante tutti coloro che in buona o in malafede l'hanno avversato. E l'ha fatto pur sapendo che "comunque vada siamo in trappola", pur sapendo che, indipendentemente dalla sua riuscita, il mondo non sarebbe cambiato. Sarebbe cambiato soltanto il nostro modo di osservarlo e pensarlo, che è l'obiettivo cui tende ogni vero artista, ogni vero innovatore: l'unica rivoluzione che ormai ci è concessa (2000).

La lunghissima citazione, oltre a omaggiare insieme ad Altman anche un grande intellettuale scomparso, identifica con chiarezza poetica ed estetica del cineasta. Il suo tempo è ancora il nostro tempo? Oppure: dopo aver anticipato e spiazzato con la sua lungimiranza, l’autore si è trovato poi superato da altre istanze? Curiosamente, alcune sue caratteristiche stilistico-formali riconoscibili e ripetute (la ripresa a distanza, lo zoom, l’enfasi su ostacoli, finestre, pareti, oggetti frapposti tra l’obiettivo e il personaggio), oltre a quelle narrative (la polifonia, i dialoghi caotici, il rifiuto della struttura a tre atti, l’erranza dei protagonisti al posto dell’arco di trasformazione, le sceneggiature aperte, ecc.) sono oggi molto più presenti nel cinema d’autore internazionale che nel cinema americano. Di eredi non se ne vedono tanti, tra loro forse solo Paul Thomas Anderson ne sembra tra i pochi profondi conoscitori ma difficilmente i suoi film ne rispecchiano le strutture simboliche.

E non aiuta nemmeno l’agenda dei discorsi culturali recenti. Sempre in M*A*S*H alcune gag sono poco esportabili al giorno d’oggi – pensiamo al superdotato Cassiodoro (così chiamato nella celebre edizione italiana) che vorrebbe morire perché sospetta di essere omosessuale e poi viene “rivitalizzato” da una notte d’amore come si deve, scoprendosi con sollievo etero e vigoroso. Oppure gli scherzi atroci contro soldatesse giudicate troppo moraliste e mostrate nude a tutto il campo militare con effetto di umiliazione corporea. Ovviamente Altman non dipingeva i suoi medici anarcoidi e sboccati come uomini probi con cui identificarsi, nemmeno se giustamente insofferenti alle regole e anti-militaristi, ma ciò di cui rideva il pubblico nel 1970 magari oggi fa ridere molto meno (del resto lo stesso regista, stupito dal successo del film, che gli valse la Palma d’Oro a Cannes, considerava le grasse risate del pubblico come un aspetto deteriore di cui non andare troppo fieri).

C’è poi il problema di una carriera a dir poco intermittente. Altman non è il frutto della nidiata di “giovani turchi cinefili” a stelle e strisce, formati nelle Università statunitensi e frequentatori abituali di cineclub a New York e Los Angeles. Nato nel 1925, era di una generazione precedente, che aveva conosciuto la guerra e si era fatta le ossa nella mai abbastanza studiata televisione americana degli anni Cinquanta. Il suo esordio al lungometraggio di finzione (The Delinquents, 1957) prelude a dieci anni di piccolo schermo, prima di tornare in sala con il doppio insuccesso di Countdown (1967) e Quel freddo giorno nel parco (1969).

M*A*S*H apre il decennio d’oro di Altman. Oltre ai titoli citati da La Polla, bisogna aggiungere almeno I compari (1971), dove persino la retorica del western revisionista o dell’anti-western viene superata attraverso una distruzione molecolare del mito della frontiera, e del suo conseguente mito della privatizzazione della terra, senza però mai rinunciare a un investimento visivo di grande forza. Se il western e il noir (Il lungo addio) sembrano cambiare i connotati a tradizioni forti come la letteratura di frontiera e l’hard boiled, nell’ultima parte dei settanta, Altman si fa sempre più teoretico e psicanalitico – titoli esemplari: Tre donne (1977) e Quintet (1979) – forse presagendo che la restaurazione hollywoodiana degli anni ottanta non potrà che metterlo ai margini, cosa che puntualmente avviene.

Queste fasi di purgatorio (pur operoso, otto film in dieci anni) vengono nuovamente dissolte da un’improvvisa esplosione di energia creativa nei novanta, complice una maggior attenzione verso il cinema indipendente USA. Sia I protagonisti (1992), dove la polifonia satirica si abbatte sull’industria stessa di Hollywood, sia America oggi (1993), dove l’incontro col minimalismo di Raymond Carver dà vita a una diagnosi sconfortante e al tempo stesso ricchissima dell’America proto-clintoniana che si affaccia promettendo il trionfo finale del capitalismo liberal-democratico (si è visto com’è finita), colpiscono critica e pubblico, non senza una certa dose di sorpresa.

Negli ultimi anni Altman tornò un po’ in un angolo, sapendo di vivere un crepuscolo culturale e anagrafico non privo di amarezze, acuite da un carattere non semplice. Sarebbe, tuttavia, riduttivo leggerne la parabola in un senso scioccamente donchisciottesco (l’autore integro contro il cinismo hollywoodiano) o cedere a una classificazione di comodo tra opere maggiori e opere minori. Molto meglio approfittare del centenario (a che altro servono, del resto?) per rivedere, riconsiderare, ripensare in tutti i sensi la sua opera.

Riferimenti bibliografici
F. La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975, Marsilio, Venezia 1977.
Id., Comunque vada siamo in trappola. L’ultimo cinema di Robert Altman, in “Cineteca”, novembre-dicembre 2000.
E. Martini, Il lungo addio. L’America di Robert Altman, Lindau, Torino 2000.
D. Thompson, a cura di, Altman racconta Altman, Feltrinelli, Milano 2010.

Robert Bernard Altman, Kansas City, 20 febbraio 1925 – Los Angeles, 20 novembre 2006.

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