Per Franz Kafka, già nel 1920, la comunicazione postale era un medium comunicativo disumano: essa avrebbe nutrito soltanto i fantasmi, oltrepassando il contatto naturale e dunque, le forze umane. «I baci scritti non giungerebbero a destinazione: sarebbero intercettati e bevuti dagli spettri durante il tragitto». (Kafka 1979, p. 169) È interessante chiedersi cosa direbbe oggi Kafka, dato che nel frattempo, l’invenzione d’Internet, delle e-mail, dello smartphone e dei social network, ha prodotto una nuova atmosfera digital-spettrale in cui si è tutti fantasmi digitali.

Aloners intende rappresentare lo spazio in cui l’uomo è diventato una figura spettrale, abitante di un ambiente trasparente e anonimo. Non esiste più l’invisibile, il segreto, il contemplativo: tutto diviene chiaro e visibile attraverso la moltiplicazione degli schermi. Il vocio indistinguibile e il continuo digitare di tasti si rivelano fin dall’inizio l’elemento caratterizzante il call center-loculo dove Jina lavora: il silenzio non è contemplabile, la comunicazione accelerata e diffusa ama gli spazi chiassosi e confusionari. La protagonista armata di cuffie risponde alle domande dei clienti controllando lo schermo: anche la pausa pranzo, che scandisce la giornata, è vissuta in totale isolamento, se non fosse per i programmi di cucina che ipnoticamente osserva. Lo smartphone diviene un prolungamento del suo arto superiore: non cammina per strada guardandosi intorno ma sempre fissando lo schermo. A casa, lo schermo dello smartphone è sostituito da quello della televisione, davanti alla quale mangia e si addormenta. Il rapporto con i genitori è ridotto a spiarli da remoto attraverso una micro-videocamera nascosta nel salotto: il padre sarà controllato anche dopo la morte della madre, come durante la celebrazione per la fine del lutto. Jina abita una realtà resa spettrale dalla pervasiva estensione delle appendici tecnologiche, che fungono da protesi, agevolatrici dell’interazione sociale.  

L’iper-connessione tecnologica è però causa di iper-distanziamento: la connessione perenne non implica necessariamente il contatto, ma produce una fantasmatizzazione del reale. Il luogo di lavoro della protagonista (un call center di una società di carte di credito) mette in mostra la massima competizione economica-finanziaria, l’aspro culto del profitto e della produttività. L’iperproduzione che le viene richiesta non è in nessun modo coniugabile con la vita: anche se l’autosfruttamento al quale è spinta le dà l’illusione di sentirsi libera, l’iperattività mortifera del suo lavoro la catapulta in una condizione di alienazione e passività. Le continue risposte meccaniche e programmate che dà ai customers mettono a nudo la difficoltà comunicativa dalla quale è affetta: se le viene particolarmente facile risolvere i problemi dei clienti attraverso delle non-conversazioni (“È molto più facile rispondere alle telefonate di lavoro”, afferma), è invece complesso dover empaticamente comunicare con gli altri.

Jina sembra star per varcare la soglia che separa la vita dalla morte: la morte improvvisa del vicino, della quale non si accorge per settimane, è la manifestazione di uno scollamento col mondo che la circonda, ma nello stesso tempo è sintomo di un collegamento che sembra avere col mondo dei morti. Per due volte, infatti, ha una visione del vicino affacciato sul cortile, mentre fuma col suo posacenere. Oppure, si pensi alle immagini registrate dalla videocamera nel salotto dei genitori: gli ultimi istanti di vita della madre, la mostrano attraversare la stanza vestita di bianco, quasi come una figura fantasmatica, ormai più morta che viva. La madre rimane, fino alla fine del film, una presenza evanescente, scarsamente percepibile, se non attraverso i contatti della rubrica dello smartphone di Jina (il suo nome è ancora associato al suo numero, ora utilizzato dal padre). Jina sembra così ricevere delle chiamate dall’oltretomba e solo alla conclusione del suo percorso, dopo diversi tentativi, riuscirà a cambiare il nome al contatto. Si è, dunque, di fronte a un importante momento spartiacque nella vita della protagonista: riuscirà a superare la fantasmatizzazione del digitale e a rinascere di nuovo umana?

L’incontro con Sujin, un’impacciata e invadente stagista di provincia, sarà determinante per la presa di consapevolezza di Jina. La ragazza, restia alla rigidità del lavoro, si rifiuterà d’essere un’altra Aloner, conducendo Jina a guardare il mondo dal suo punto di vista. Sujin comunicherà empaticamente col nostalgico cliente “malato mentale”, convinto d’aver creato una macchina del tempo, da utilizzare per tornare a una partita dei mondiali del 2002: “Oggi sono tutti occupati. Suppongo abbiano tutti molto da fare. Capisce? […] Torneremo nel 2002, alle folle felici”.

Da qui in poi, Jina sembra porsi una domanda che la condurrà alla svolta: qual è il confine tra il desolato isolamento dal mondo e la solitudine celebrativa del valore dell’individuo, della sua persona libera e indipendente?  Hannah Arendt risponde al quesito in La vita della mente: «La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell’isolamento si produce quando sono incapace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, “vengo meno a me stesso”, o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia» (Arendt 2009, p. 222). Dopo la fuga di Sujin, il bip, del quale quest’ultima si lamentava, diventerà ascoltabile anche nelle cuffie di Jina, rivelandosi una promettente interferenza in un presente continuo e sempre chiaramente risolvibile e visualizzabile attraverso lo schermo. Durante un ultimo scambio telefonico con Sujin, Jina afferma: “Non sono fatta per mangiare da sola. O dormire da sola, o prendere l’autobus da sola. Non mi piace fumare da sola. Non sto bene da sola”.

La riconciliazione col padre la incanala verso un definitivo percorso risolutivo: ma proprio nel momento in cui vuole realmente comunicare, la linea telefonica non funziona e il numero risulta irraggiungibile: gli strumenti digitali, ancora una volta, non facilitano la comunicazione con l’esterno, ma la ostacolano. Ciononostante, Jina risorge allontanando la morte: spegne la televisione, apre le tende illuminando il suo appartamento e decide di cambiare lavoro. L’ultimo residuo del mondo dei morti svanisce quando finalmente riesce a cancellare il nome della madre dalla rubrica telefonica: i fantasmi riposano finalmente in pace e Jina ha sventato il rischio di diventarne uno.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009.
Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2015.
F. Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, Milano 1979.

Aloners. Regia: Hong Sung-eun; sceneggiatura: Hong Sung-eun; produzione: Lee Seung-won; cinematografia: Choi Young-ki; montaggio: Hong Sung-eun; musiche: Lim Min-ju; interpreti: Gong Seung-yeon; produzione: Korean Academy of Film Arts; origine: South Korea; durata: 91′.

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