Un lettore disattento potrebbe supporre che nei saggi dell’ultima raccolta pubblicata da Giorgio Agamben, Alla foce (Einaudi 2025), aleggi un senso di graziosa nostalgia. Forse perché il filosofo si trova a riflettere sul tempo perduto (Vivere, o del tempo perduto), sull’irrealizzabilità dei desideri (Sull’esaudire i desideri), sul rapporto che dobbiamo intrattenere con le cose che ci-non-sono (Alibi) o con i propri ricordi (Nel dimenticatoio. La memoria e l’oblio), sul tempo della vecchiaia (L’ultima mano all’ebbrezza), ovvero sul tempo ultimo.

È dalla concezione di un simile tempo tardivo che prendiamo le mosse per tentare di scuotere il lettore disattento. «Ai bevitori piace soprattutto l’ultimo bicchiere» (Agamben 2025, p. 234): citando queste parole di Seneca, Agamben inizia le proprie riflessioni sulla vecchiaia, per parlare di un certo senso di ultimità. È singolare che sia sempre a proposito dell’alcol che Deleuze pensi a qualcosa di simile, a cui però dà il nome di penultimità: il bevitore non cerca l’ultimo bicchiere ma il penultimo, perché «non smette mai di essere all’ultimo bicchiere» (Deleuze 2005). In questo modo Deleuze tenta di ripensare l’ultimità, per smarcarla da quel senso di fine e di compimento che generalmente essa porta con sé: non smettere di essere all’ultimo, in quest’ottica, significa avere a che fare con un perpetuo ultimo, con qualcosa che è «perpetuamente compiuto come incompiuto» (Péguy 1994, p. 30).

Certo, se Agamben preferisce parlare di ultimità, al fondo di questa concezione permane il senso dell’adagio beckettiano pour finir encore. Ma, a differenza del «senso del penultimo» di Molloy, l’ultimità agambeniana diviene pienamente intellegibile a patto che venga concepita assieme a quella che dovrebbe apparire come la sua estrema antagonista: la prima volta (o «primavoltità», Agamben 2025, p. 222).

Cos’è una prima volta? Anche l’individuo meno nostalgico deve ammettere che, pur a suo modo, non può non mantenere un certo legame affettivo con le sue prime volte (la prima passeggiata con l’amico, il primo scambio di sguardi, il primo bicchiere di vino, e via dicendo). Spesso si tratta di eventi opachi, mal situabili nel tempo, ed è forse questa difficoltà di riprodurli, assieme alla consapevolezza dell’impossibilità di un loro ritorno, che rischia di renderci nostalgici. Ma non è di questo che ci parla Agamben. Il sentimento che qui è in questione non è semplicemente diretto a ciò che è stato e non c’è più.

«Parliamo, se volete, di un passato che potremmo non avere mai avuto» (Pessoa 2018, p. 7), dice la seconda vegliatrice de Il marinaio di Pessoa. Sembra questa la postura che Agamben adotta, nella misura in cui si rivolge a ciò che in ogni vita resta non vissuto o a quelle che Furio Jesi chiama le cose che ci-non-sono. È dunque questa nostalgia del mancato da per sempre, per usare le parole di Carmelo Bene, che aleggia nell’opera di Agamben? Non esattamente. Come lui stesso ammette, non si tratta né di credere solo in ciò che c’è e si dà attualmente, né di negare valore alle cose che ci sono per dirigersi a quelle che non ci sono (e compito della filosofia consisterà precisamente nel trovare la giusta relazione «fra il qui e ora fattizio e l’altrove», Agamben 2025, p. 251). Ciò a cui dobbiamo rivolgerci e che dobbiamo testimoniare è un altrove che, pur non essendo di questo mondo, «nondimeno è qui e ora a suo modo irrevocabilmente presente» (ibidem). Diversamente, allora, dallo scacco a cui è condotta la seconda vegliatrice («Mai più tornerò ad essere ciò che forse non sono mai stata», Pessoa 2018, p. 7), si tratterà di pensare che tale mai stato costituisca «la vera patria del pensiero» («Sono tornato là / dove non ero mai stato», recitano dei versi di Caproni cari ad Agamben).

È esemplare, a tal proposito, il modo in cui il vecchio si rapporta al proprio passato. Se il senso comune ci spinge a credere che i vecchi nostalgici vivano di un tempo destinato a non tornare più, Agamben intende mostrarci qualcosa di più sottile: «Il vecchio non è affatto tale, è, piuttosto, giovanissimo e quasi fetale, sempre nella condizione di un principiante, che inizia a vivere a partire da qualcosa che ha già vissuto. Il passato, in questo modo, non è finito una volta per tutte e immutabile, ma contiene una possibilità di vita ulteriore» (Agamben 2025, p. 237). All’ultimo, ridare possibilità al proprio passato, non per ricordarlo o per compiere qualcosa di incompiuto, ma per trasformarlo e vivere di nuovo il fondo non vissuto, il mai stato che è sempre implicato in ogni vita. È mediante questo singolare statuto di una nuova possibilità del passato, capace di far cadere assieme l’origine e la fine, che deve essere intesa l’opera stessa di Agamben. L’ultimità che si rende indistinguibile da  – o cade insieme a  – la primavoltità. L’ultima opera, sive la prima.

In questa ultima, così prima, opera, che, con le parole dell’autore, non possiamo non definire tarda, ci confrontiamo con una summa che ripete, riprendendole daccapo, molte delle nozioni chiave della sua filosofia. Alla foce è precisamente quell’opera infinita che «man mano che si dissipa e allunga, sembra allontanarsi dalla propria fine per ritrovare in qualche modo un avvio, quasi che la sua stessa fine gli sopraggiungesse come un’iniziazione o un inizio» (ivi, p. 241). È qui che ci troviamo a riflettere, di nuovo (nel suo duplice senso: per l’ennesima-prima volta), sul concetto di dynamis e sulla sua inseparabilità dall’atto (ivi, p. 38); sul ruolo dell’immaginazione come il medio che permette la congiunzione di anima intellettiva e anima vegetativo-sensitiva (ivi, p. 60), nonché sulla natura della potenza e dell’intelletto come luogo o dimora (ivi, p. 200); sull’essere come vita, ovvero come «un’autoaffezione, una capacità di essere affetti che si appassiona a se stessa» (ivi, p. 36); sul desiderio come quell’irrealizzabile già sempre esaudito che, stando accanto al reale, «lo rende ogni volta possibile» (ivi, p. 133) e il cui appagamento non consiste che nella sua contemplazione; sulla fine della memoria e l’inizio dell’oblio, «lo sterminato deserto dell’immemoriale» (ivi, p. 213); sul linguaggio e sull’esigenza di ridare al nome tutto il suo originario potere, quello di chiamare la dicibilità di un oggetto (ivi, p. 208); sulla poesia come inoperosità della lingua; sulla necessità di introdurre un tempo cairologico e non cronologico; sul tentativo di ripensare i rapporti tra la contingenza e la necessità, tra la memoria e l’oblio, tra la tragedia e la commedia, tra la verità e l’errore; sulla possibilità, infine, di ammettere una conciliazione di queste nozioni che non sia prettamente dialettica.

È solo a partire da una concezione dell’essere non più sostanziale ma modale che il metodo agambeniano può cercare tale conciliazione Il sive spinoziano è precisamente questo: un così, un forse (come leggiamo nel saggio Fors), che ci conduce a pensare una “filosofia del contatto”, per cui tra la sostanza e i suoi modi non si dà nulla, se non un come. È su questa via, ad esempio, che Agamben continua a ripensare quella che anni fa chiamava già una «contingenza alla seconda potenza» (Agamben 2001, p. 38). Piuttosto che operare una conciliazione dialettica delle due categorie modali di contingenza e necessità, si tratterà di pensare una necessità contingente o una contingenza necessaria, che esprime soltanto il darsi dell’essere, ovvero il suo «statuto evenemenziale e non sostanziale» (Agamben 2025, p. 198).

Questo cadere insieme di due termini, che Agamben applica anche alle altre dicotomie della filosofia occidentale, è esemplificato da un’immagine estremamente indicativa: la rima. I due termini che sono in rima, infatti, «cadono insieme, ma ciò che avviene in loro luogo non è un terzo vocabolo ad essi omogeneo, ma solo il sospendersi e il collidere del loro significato in una pura “cadenza”» (ivi, p. 202). È questo cadere insieme che identifica l’ontologia modale del filosofo con una ontologia mediale. L’intuizione di Hölderlin, per cui qualcosa è «conoscibile nel medio del suo apparire», consente ad Agamben di affermare che «l’essere di una cosa coincide integralmente con la sua medialità e conoscibilità, una cosa è veramente qualcosa   e non un oscuro, inconoscibile presupposto  – solamente se si tiene nel medio del suo apparire, se è affetta dalla sua conoscibilità» (ivi, p. 21).

È sempre sulla base di questa approccio mediale, ad esempio, che in uno dei saggi più audaci della raccolta, intitolato Sotto la specie dell’eternità, Agamben si prodiga a risolvere una delle più annose e dibattute questioni della filosofia spinoziana: il rapporto tra il tempo e l’eternità. Se per Spinoza vi sono due modi di concepire le cose come attuali, in quanto sono considerate come esistenti o nello spazio e nel tempo o sotto una specie dell’eternità, che relazione vi è tra i due e come si può passare da un modo all’altro? È attraverso una breve archeologia della nozione medievale di species che Agamben costruisce la sua risposta. Da un lato, l’autore ipotizza che il contesto in cui Spinoza si trova a usare il concetto di species sia quello delle discussioni medievali sull’Eucarestia, «al cui centro era la tesi secondo la quale il corpo e il sangue di Cristo sono realmente presenti sub specie panis et vini» (ivi, pp. 92-93).

In questo senso, le cose concepite secondo il terzo genere di conoscenza permangono ancora con i loro accidenti sensibili, ma diventano una specie intellegibile dell’eternità. La specie spinoziana, cioè, costituisce un medio tra la forma di conoscenza che lega le cose nello spazio e nel tempo e quella che le considera come eterne. Dall’altro lato, però, come pensare il passaggio dall’uno all’altro modo di conoscenza? L’intuizione di Agamben è che nel secondo modo abbiamo a che fare non semplicemente con l’idea di quella cosa, ma con «quella che Spinoza chiama idea di un’idea, cioè della “forma dell’idea”» (ivi, p. 107). Conoscere una cosa sotto la specie dell’eternità significherà allora essere affetti dall’idea di un’idea, ma «essere affetta non dall’idea di un oggetto, ma dalla forma dell’idea senza relazione a questo significa per la mente essere affetta in qualche modo dalla sua stessa capacità di essere affetta, cioè dall’idea in quanto è causata immediatamente dal pensiero divino» (ivi, p. 108).

Molti altri esempi potrebbero essere fatti, ma si impone la necessità di una conclusione. Forse al lettore disattento potremmo concedere di continuare a parlare di nostalgia, purché di questa antica maladie du Pays si sospenda il tradizionale oggetto di riferimento e si mantenga solo la particolare tonalità affettiva che permane in superficie: quel dolce tremore che ci coglie ogni volta che, accarezzando ciò che è rimasto non vissuto in una vita, viviamo la sua vivibilità. Come il momento, così spettrale eppure tanto beato, in cui sperimentiamo che l’evento di un primo incontro non cesserà mai di accadere. Primo, sive ultimo.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
G. Deleuze, C. Parner, Abecedario di Gilles Deleuze, DeriveApprodi, Roma 2005.
C. Péguy, Clio. Dialogo della storia con l’anima pagana, Milella, Lecce 1994.
F. Pessoa, Il marinaio, Einaudi, Torino 2019.

Giorgio Agamben, Alla foce, Einaudi, Torino 2025.

Tags     Giorgio Agamben, Spinoza
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