
Aisthesis è una sorta di summa della riflessione estetica che Jacques Rancière ha sviluppato nel corso degli ultimi vent’anni. Nell’illustrazione di quattordici “scene”, ognuna datata (tra il 1764 e il 1941) e localizzata (in una città europea o americana), alcuni temi classici del suo pensiero (il rapporto tra arte e politica, l’opposizione tra regime rappresentativo e regime estetico, l’intreccio moderno di arte e vita) vengono verificati da una serie di casi esemplari, secondo il modello formale che Rancière assume esplicitamente da Mimesis di Erich Auerbach. Dall’Ercole winckelmanniano sino agli inventari di oggetti qualunque di James Agee, passando per le vicende di Julien Sorel, la danza di luce di Loïe Füller, le riflessioni di Rilke su Rodin, il montaggio di Dziga Vertov etc., Rancière tesse la trama, al contempo uniforme e in continua variazione, di ciò che il regime estetico moderno ha chiamato con il nome di Arte, mostrando come la modernità non sia affatto caratterizzata dal costituirsi di un regno autonomo nel quale l’arte in generale si distingua dalle attività della vita prosaica, bensì, proprio al contrario, come essa sia definita dal tentativo di produrre, attraverso la cancellazione delle frontiere che separano le forme artistiche da quelle dell’esperienza ordinaria, una zona di indistinzione tra arte e vita.
Ma Aisthesis è anche un testo nel quale emergono almeno due temi che, se non sono completamente nuovi nella riflessione di Rancière, certamente non erano mai stato posti con tanta forza. Il primo è il tema, propriamente estetico, del corpo e della sua rappresentazione; il secondo è la questione politica di quella che potremmo chiamare (con un autore, Giorgio Agamben, a cui qui, inaspettatamente, Rancière sembra particolarmente vicino) inoperosità.
Fin dalle prime pagine dedicate a quanto Winckelmann dice del Torso del Belvedere, Rancière è portato a riflettere sul modo in cui l’estetica moderna dissolve il “modello gerarchico del corpo”, quel corpo ben ordinato nel quale ogni organo è asservito alla funzione specifica a cui lo destina la logica dell’azione. Ciò che con Winckelmann diviene il paradigma dell’arte classica non è, infatti, la “serena grandezza” di un corpo potente e glorioso, ma una figura, mutilata dal tempo, nella quale del corpo non resta che il movimento incessante con cui una forma si scioglie nell’altra, il movimento oscillatorio dei muscoli che si sollevano e ricadono, fondendosi infine l’uno nell’altro come le onde del mare (J. Rancière, Aisthesis, pp. 45 e sgg.). È per questo che la storia dell’arte fondata da Winckelmann, la storia del regime estetico dell’arte, può essere intesa come la storia del prodursi di una nuova immagine del corpo, come la storia delle metamorfosi di quella statua mutila e perfetta, costretta, dalla mancanza della sua testa e delle sue membra, a proliferare in una molteplicità di corpi inediti (ivi, p. 63).
Sarà soprattutto parlando di Rodin (e del Rodin di Rilke) che Rancière porrà al centro della scena questa nuova immagine del corpo:
Se il Torso descritto da Winckelmann era stato mutilato dagli accidenti della storia, Rodin, per parte sua, creava deliberatamente dei corpi privi di testa o di arti: l’Uomo che cammina senza testa, la voce interiore senza braccia, il Balzac con gli arti cancellati dalla vestaglia. Gli spettatori, al pari dei letterati committenti del Balzac, rimasero sconvolti di fronte a quei corpi incompiuti. Ma tale reazione, obiettava Rilke, era dovuta a un errore: far coincidere l’unità di un’opera con quella di un corpo […]. Il corpo senza braccia della Voce interiore forma infatti una totalità a cui non manca nulla, quella di un atteggiamento reso sufficientemente singolare dall’inclinazione del corpo e dalla torsione contraria del collo che porta la testa, concentrata su di sé e al contempo in ascolto del rumore lontano della vita, [ad essere] perpendicolare al busto (ivi, pp. 198-99).
Il problema politico dell’inoperosità, il secondo tema che in Aisthesis assume nuova rilevanza, non è senza rapporti con questa moderna estetica del corpo. L’organizzazione delle parti di un corpo nella totalità di un organismo è tale, infatti, in quanto il corpo viene concepito ed esercitato esclusivamente come strumento capace di agire. Fin dal Preludio di quest’opera, Rancière spiega come il regime estetico dell’arte stabilisca “un legame originario tra la libertà politica, la rinuncia all’azione e la defezione dal corpo comunitario” e come la rivoluzione estetica moderna implichi la rottura del “modello gerarchico del corpo, della storia e dell’azione” (p. 42) che aveva caratterizzato il precedente regime rappresentativo. La disgregazione estetica del corpo va di pari passo con la destituzione del privilegio dell’azione persino in quelle forme artistiche (come il teatro: la scena scelta da Rancière è quella di un Ibsen letto da Maeterlinck: ivi, pp. 149 e sgg.) che da secoli costituivano la scena privilegiata degli uomini d’azione : “per essere più vicino alla vita e all’arte, il teatro arrivò a rifiutare l’azione e i suoi attori, considerandosi come coro, affresco o architettura in movimento” (ivi, p. 42).
Ma questa esigenza di inoperosità, con la rottura del rapporto tra mezzi e fini e con l’elogio della beatitudine oziosa che porta con sé, non è certo, per Rancière, l’utopia minore di un’estetica ormai incapace di una presa effettiva sulla realtà storica, né indica una distanza incolmabile tra le istanze dell’arte e quelle della “vera azione politica rivoluzionaria”. Semmai, essa rende manifesto un problema che attraversa tanto la pratica di un’arte non mimetica quanto l’esercizio di una politica rivoluzionaria. Come spiega Rancière, riannodando il filo con una delle sue più antiche ricerche, è:
Lo stesso paradosso incontrato nelle pratiche e nelle teorie dell’emancipazione sociale. Gli operai emancipati non potevano ripudiare il modello gerarchico che regolava la distribuzione delle attività senza prendere le distanze dalla capacità di fare che li subordinava ad esso e dai programmi d’azione degli ingegneri dell’avvenire. Ai militanti della religione sansimonista del lavoro […] si sarebbero potute contrapporre le parole ingenue di uno di loro: “Quando penso alle bellezze del sansimonismo, la mia mano si blocca”. La massima espressione della collettività operaia [in lotta] si chiamerà sciopero generale, equivalenza esemplare dell’azione strategica e dell’inazione radicale (ivi, pp. 43-44).
È nell’esplosione di questo paradosso che ancora si gioca la possibilità di una politica dell’inoperosità. Una politica che non subordini l’attualità della vita comune alle strategie per la distruzione dello stato di cose presenti e per la costruzione di una società a venire è una politica consapevole della potenza con cui la sola affermazione dell’inoperosità – cioè, in ultima istanza, il rifiuto del lavoro – è capace di dissolvere l’ordine dell’oppressione.
Riferimenti bibliografici
J. Rancière, Aisthesis. Scene del regime estetico dell’arte, a cura di Pietro Terzi, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
E. Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale. 2 vol., Einaudi, Torino 2000.
G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Milano 2014.