Dopo un’opera giovanile come Giovanna d’arco, Davide Livermore torna a Verdi e all’Opera di Roma con un capolavoro della maturità, Aida, e lo fa proseguendo nella sua ricerca che sfrutta i linguaggi del video per ottenere un impatto emotivo calato nella sensibilità contemporanea. In questo caso la matrice dichiarata dell’ispirazione guarda al cinema delle origini, in particolare a un film famoso, Cabiria (1914), primo colossal italiano basato su una sinergia sfarzosa fra le arti molto operistica, con una complicata trama ambientata al tempo delle guerre puniche (parte del film fu girata in Tunisia). Forse questa matrice avrebbe dovuto essere più scoperta, per evitare il disorientamento dello spettatore di fronte a soluzioni inevitabilmente kitsch. Ma forse la cifra di Livermore è proprio questo confine sempre più labile fra sublime e kitsch.
Al centro di una scena coperta di sabbia nera si staglia un monolite, un enorme parallelepipedo in Ledwal su cui scorrono svariati video (firmati da D-Wok), in una metamorfosi che asseconda le sfaccettature della musica; alcuni hanno una funzione illustrativa, altri invece visualizzano le emozioni dei personaggi. Ed è qui il fulcro di questa regia: la dimensione fantasmatica del desiderio che culminerà nel finale. Aida è un’opera che ha una doppia articolazione: la dimensione pubblica, solenne e spettacolare, legata alla storia dell’Egitto (l’opera fu commissionata a Verdi, per una cifra strabiliante, dal Khedive Ismail, per l’inaugurazione del Teatro dell’Opera del Cairo nel 1870); e la dimensione privata del topico triangolo amoroso, che qui assume tonalità molto soggettive.
Lo scontro fra pubblico e privato è la cifra dell’estetica del melodramma, ma in questo caso si è trasformato in una duplicità dell’opera stessa, che ha portato a una sua paradossale ricezione: Aida è famosa soprattutto per la Marcia trionfale, e per l’apparato iconografico di un Egitto atemporale, frutto della ricerca archeologica («un sogno archeologico da lontano» l’ha definita Jürgen Maehder, mentre Ronconi allestì la marcia come una sfilata di reperti); mentre la sua natura più autentica è, al contrario, un tormentato intimismo, come ribadisce, nell’intervista sul programma di sala, il maestro Michele Mariotti, che su questo basa la sua lettura. È uno scavo psicologico che si alimenta di musica, parola, azione, visione: di una complessa performance intermediale.
Proprio mentre lavora ad Aida Verdi scrive una lettera al librettista Antonio Ghislanzoni in cui enuncia la sua celebre teoria della “parola scenica”, espressione efficacissima che anticipa la semiologia novecentesca del teatro; la stessa lettera in cui afferma provocatoriamente che «per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica». Quanto alla musica, le lievitazioni timbriche raffinatissime di questa partitura segnano l’apice della maturità espressiva di Verdi, anche se gli attirarono le critiche di wagnerismo (lo ricorda Giorgio Pestelli nel programma di sala).
L’aspetto politico di Aida ha bisogno di qualche altra osservazione, anche perché Livermore ha utilizzato il blackface, rivendicando questa scelta oggi anomala come mezzo per valorizzare le tensioni sociali evocate dal testo. Aida è stata analizzata in un classico degli studi postcoloniali, Cultura e imperialismo (1993) di Edward Said, grande studioso e conoscitore di musica. Said considera Aida uno spettacolo imperiale rivolto a una classe sociale egiziana in ascesa, filoeuropea, che vuole separarsi dalla sua componente araba; a questo va aggiunto il rimando alla spedizione colonialista che il Khedive Ismail fece contro il Sudan: la razzializzazione degli etiopi nell’opera di Verdi assume così un valore storico.
Sul tema del blackface abbiamo ora uno strumento utilissimo: il primo numero della rivista dell’Opera di Roma, Calebano, interamente dedicato agli innumerevoli aspetti del trucco nero da parte di attori bianchi, nato con il minstrel show, teatro itinerante di successo nell’America dell’Ottocento, in cui la popolazione afroamericana veniva rappresentata in modo caricaturale; una pratica che ci svela l’ambivalenza fra attrazione e repulsione che la cultura occidentale ha sempre dimostrato verso la musica nera, come nota l’americanista Sandro Portelli, che cita anche alcuni esempi italiani («Vorrei la pelle nera» di Nino Ferrer o il gruppo i Neri per caso; più politici gli Alma Megretta che cantano «siamo tutti figli di Annibale»).
Proprio la ricchezza di questa rivista (che spazia dall’opera lirica a Michael Jackson, dall’afrofuturismo alla teoria dei colori) ci fa capire quanto Livermore volesse valorizzare il potenziale simbolico di quest’opera, anche perché non ha scelto un trucco vistosamente nero, ma leggermente olivastro, quasi impercettibile, usando la coloritura della faccia per tutti i personaggi, per ottenere l’effetto di un film in bianco e nero. Quello che non convince è il richiamo alla dichiarazione di Tom Hanks, secondo cui oggi non potrebbe più recitare come protagonista di Philadelphia, perché la parte sarebbe destinata ad un attore omosessuale. Questo eccesso di correttezza politica, chiamato gayface, va in realtà contro il senso stesso della recitazione, e contro le tendenze migliori della ricerca teatrale, che rifiutano il criterio della verosimiglianza, e affidano le parti con assoluta libertà rispetto a genere, etnia, età (basta pensare alla serie TV Bridgerton). Il gayface, come il blackface, va nella direzione contraria, naturalistica, che non sembra quella di Livermore, nonostante le sue dichiarazioni.
La lettura politica dell’Aida non ci dice comunque molto sulla sua commovente bellezza, e sulla complessa dialettica fra i personaggi, fra cui spicca la figura della rivale, Amneris, che suscita empatia negativa grazie alla sua caratterizzazione sofferta, qui vestita come una diva del muto, grazie agli splendidi costumi di Gianluca Falaschi. Il triangolo amoroso culmina nel bellissimo finale, in cui i due amanti muoiono sepolti vivi, mentre Amneris canta una preghiera straziante, valorizzando la dialettica fra alto e basso, potere ed eros: e sono molte le regie di Aida che hanno enfatizzato i due livelli, come quella di Giorgio De Lullo alla Scala nel 1972, con le scene di Pierluigi Pizzi.
La morte comune in una tomba segna il trionfo del nesso romantico fra eros e thanatos, e potrebbe avere connotazioni gotiche, se non fosse affidata a una musica rarefatta, che è il culmine dell’intimismo di Aida: l’opera famosa per la marcia trionfale finisce in uno vaporoso decrescendo, in una pura catarsi. Hans Castorp, il protagonista di un capolavoro del modernismo come la Montagna magica di Thomas Mann (a suo modo una storia di reclusione claustrofobica), vedeva in questo finale la vittoria della bellezza artistica sulle brutture della vita. E proprio in questo momento clou la regia di Livermore ha il suo colpo di genio, che decostruisce il romanticismo radicale del Verdi maturo: Aida ci appare come un’allucinazione, quasi a evocare quella spettralità di cui si nutre il desiderio (secondo Roland Barthes in fondo amiamo sempre un fantasma), e che è anche l’anima del cinema. Il bianco in cui si spegne l’opera è il rovesciamento simbolico del nero che ha dominato la scena, ma è anche, inevitabilmente, un’allusione allo schermo.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2014.
J. Maehder, Oper als archäologischer Traum von Ferne, Deutsche Grammophon, 1982.
E. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti, Roma 1995.
S. Portelli, La maschera che ride e mente. Storia del minstrel show, in Aida: Blackface. Calibano, numero zero della rivista dell’Opera di Roma, gennaio 2023.
G. Verdi, Aida, programma di sala dell’Opera di Roma, gennaio 2023 (saggio di G. Pestelli; interviste di A. Mattioli e V. Cappelli).
Aida. Musica: Giuseppe Verdi; libretto: Antonio Ghislanzoni; direttore: Michele Mariotti; regia: Davide Livermore; maestro del coro: Ciro Visco; scene: Giò Forma; costumi: Gianluca Falaschi; luci: Antonio Castro; video: D-Wok; interpreti: Krassimira Stoyanova, Vittoria Yeo, Gregory Kunde, Luciano Ganci, Ekaterina Semenchuk, Irene Savignano, Vladimir Stoyanov, Riccardo Zanellato, Veronica Marini, Giorgi Manoshvili, Carlo Bosi; anno: 2023.