L’indagine filosofica, a prescindere dall’oggetto su cui di volta in volta si può concentrare, è in realtà un esercizio attraverso il quale tentare di cogliere con la coda dell’occhio lo sfondo impensato contro il quale si stagliano i nostri pensieri più comuni, il rimosso su cui si collocano placidamente le parole e le cose che popolano la nostra vita quotidiana. E questa è anche la natura del prezioso volume La voce umana di Giorgio Agamben.

Cosa c’è, infatti, di più consueto e allo stesso tempo sfuggente della voce? Presente in ogni scambio linguistico, di cui costituisce come la pista sonora, e insieme celata in ogni atto di dire, la voce – scrive l’autore – «non è forma né sostanza: è soltanto materia, flusso e flessione» (Agamben 2023, p. 56). Ma di quale voce parla Agamben? Non (o almeno non solo) di quella studiata dalla fonologia, né dell’oggetto del desiderio dei melomani; non di quella forma di vocalità – il canto lirico italiano – appena riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco, né del suono inarticolato proprio delle diverse specie animali. La voce che qui è in questione, lungi dall’essere oggetto di uno specifico campo disciplinare, viene individuata addirittura come la soglia antropogenetica che segna l’articolazione tra natura e cultura, tra suono e senso, tra vivente e linguaggio

Tale soglia rimane però pressoché impensata e, proprio perché rimossa, non fa che determinare indirettamente l’intera forma di vita che nel linguaggio riconosce la propria peculiarità: nella «relazione fra la voce e il linguaggio, la phōnē’ e il lògos» si gioca il problema filosofico fondamentale «ed è probabile che finché questo problema continuerà a restare allo stato latente, esso, come ogni rimosso, impedirà la corretta posizione delle domande filosofiche decisive» (ivi, p. 29).

Il punto d’innesco della riflessione di Agamben sta nel riconoscimento di una scissione costitutiva che attraversa l’intera storia del pensiero occidentale. A partire da questa scissione si costituiscono i dualismi che popolano la storia della filosofia e, sul piano linguistico, le diverse coppie di opposti che strutturano la nostra tradizione di pensiero: semiotico e semantico, nomi e discorso, langue e parole.

In questo quadro, una prima riflessione viene dedicata a un tema apparentemente specialistico, il caso vocativo, in cui chiamare e nominare finiscono per coincidere, vale a dire cadere insieme: «Nel vocativo, ciò che è chiamato è innanzitutto il nome» (ivi, p. 24) e, radicalizzando, si può concludere che «ciò che il vocativo chiama è la lingua» (ivi, p. 27).

Il vocativo, «caso della voce» (ivi, p. 28), porta in primo piano ciò che abitualmente rimane sottotraccia nel linguaggio articolato, vero e proprio contrassegno di ciò che è umano:

Il linguaggio umano si costituisce attraverso un’operazione sulla voce, che la articola […], iscrivendo in essa i gràmmata come suoi elementi. Questa “articolazione”, che rende intellegibile e significante la voce, è, in realtà, la scrittura alfabetica (ivi, p. 43).

Agamben delinea così un primato della scrittura che non ha nulla a che vedere con un’ipotesi sull’origine del linguaggio ma che rivela un’operazione costitutiva sul piano antropologico. Quello stesso meccanismo di inscrizione delle lettere nella voce che «ha permesso alla lingua di costituirsi come un sistema di segni» (ivi, p. 44) opera una «esclusione inclusiva della voce» (ivi, p. 46) in cui il lettore attento potrà facilmente riconoscere il «dispositivo presupponente» (Oliva 2015) che – tanto sul piano ontologico quanto su quello linguistico e politico – costituisce il procedimento tipico osservato da Agamben e riconosciuto come origine delle scissioni interne al pensiero occidentale:

Come la vita naturale dell’uomo viene inclusa nella politica attraverso la sua stessa esclusione nella forma della nuda vita, così il linguaggio umano […] ha luogo attraverso una esclusione-inclusione della nuda voce […] nel lògos (ivi, p. 59).

Origine qui non significa momento t0  né con tale termine si intende indicare la causa prima (e unica) di un determinato fenomeno. Piuttosto, con un procedimento riconoscibile in diversi protagonisti del pensiero italiano, l’origine non è collocata (e neutralizzata) in un passato ormai inerte; essa piuttosto non cessa di animare il presente: «L’antropogenesi […] non si è prodotta una volta per tutte in un arcipassato preistorico: essa è un processo tuttora in corso» e questo perché:

L’articolazione fra phōnē’ e lògos […] è un’operazione storica perennemente in corso, che, in quanto deve dividere e, insieme, congiungere il vivente e il parlante, il non umano e l’umano, non può che essere incessantemente attuata e ogni volta puntualmente differita e aggiornata (ivi, p. 60).

Riprendendo il filo del pensiero che percorre alcuni suoi saggi precedenti (a partire da Vocazione e voce, Agamben 2005; cfr. D’Alonzo), qui il filosofo riesce a chiudere il cerchio che tiene insieme linguaggio, politica, filosofia e poesia (ma, come esplicitato altrove – Agamben 2016a; 2016b – si potrebbe anche dire musica come esperienza della Musa, ovvero l’aver luogo della parola): è infatti in un’esperienza nuova, inedita e non regressiva della voce che si fa strada la possibilità di una disattivazione della «macchina antropogenetica» (ivi, p. 61) che tiene in ostaggio l’umano:

La voce non è qui l’oggetto di un sapere, il fine di una ricerca puramente teorica. È, piuttosto una via d’uscita dalle aporie in cui resta impigliata la nostra concezione del linguaggio, sempre già scissa fra lingua e parola, nomi e discorso, semiotici e semantico (ivi, p. 64).

Agamben si rivela compiutamente come il filosofo della voce. Alcuni indizi evidenti di ciò erano riscontrabili tanto nella sua produzione teorica quanto in alcune circostanze legate alle modalità in cui si è recentemente espresso il suo pensiero: si pensi ad esempio al titolo della sua discussa rubrica on line (Una voce) o all’impegno editoriale come curatore della collana di poesia bilingue – italiana e dialettale – di Quodlibet (si ascolti a tal proposito l’intervista di Felice Cimatti ad Agamben, 2019). Perché, ricordiamo, «filosofia e poesia sono i modi in cui l’uomo, commemorando e rivivendo ogni volta la stessa antropogenesi, cerca di venire a capo della scissione del suo linguaggio e della sua natura» (ivi, p. 64).

Nel pensiero di Agamben la voce diviene l’orizzonte di un compito non solamente estetico, linguistico o poetico ma soprattutto politico, dal momento che essa è la soglia in cui si decide ciò che è umano e ciò che non è umano, e indica la via d’uscita dall’impasse in cui si trova la nostra forma di vita. Come leggiamo già in Vocazione e voce:

Libertà è possibile per l’uomo parlante solo se egli potesse venire in chiaro del linguaggio e, afferrandone l’origine, trovare una parola che fosse veramente e interamente sua, cioè umana. Una parola, cioè, che fosse la sua voce, così come il canto è la voce degli uccelli, il frinito è la voce della cicala e il raglio è la voce dell’asino (Agamben 2005, p. 90).

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Vocazione e voce, in Id., La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005.
Id., Experimentum vocis, in Id., Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016a.
Id., La musica suprema. Musica e politica, in Id., Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016b.
S. Oliva, Politics, Ontology, Language. Giorgio Agamben and the Presupposing Apparatus, in  “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 9 n. 1 (2015).

Giorgio Agamben, La voce umana, Quodlibet, Macerata 2023.

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