Reduce dal Leone d’oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza nel 2014, Roy Andersson con About Endlessness (Om det oändliga) realizza un’opera che si avvicina sempre più alla forma letterario-filosofica della meditazione. Come di consueto, soprattutto a partire dal film sopracitato e, in maniera diversa in Canzoni del secondo piano (2000) e You, the Living (2007) — per certi versi più vicini al suo primo lungometraggio di finzione Una storia d’amore (1970) — il regista svedese allestisce dei quadri in sé compiuti (ma agli altri intrecciati) e che, a seconda dei casi, includono o escludono lo stacco che li precede o li segue. Come la leopardiana siepe posta in apertura che ostruisce la piena visione sulla città, i quadri costituiscono un rettangolo delimitante, quella parte da cui può dispiegarsi il tutto. L’infinito parte sempre da una limitazione.
Ogni inquadratura è abitata da personaggi-manichini dai volti coperti di cerone che instillano non solo il dubbio circa la loro eventuale esistenza, ma come avviene nella Seconda Meditazione cartesiana, soprattutto quello, ben più perturbante, della nostra propria esistenza individuale. Il solo fatto di poter osservare questi uomini non permetterà di sciogliere il dubbio: essi, ammonisce Cartesio, potrebbero persino essere degli “spettri” o degli “uomini finti” coperti da cappelli e mantelli che ne confondono le vere sembianze.
Per Andersson la ricerca dell’umanità degli uomini è un’attività da compiere a debita distanza, come un sagace — e un po’ sardonico — osservatore lontano che, tuttavia, rinuncia al lavorio dell’immaginazione, alla magia che può scatenarsi rimarcando la fissità iperbolica della messinscena. Per di più, la voce fuori campo che introduce ogni piano-sequenza si esprime ricorrendo sempre alla formula “Ho visto un uomo/una donna…”, quasi a sancire ulteriormente il punto di vista “aereo”, discosto, di ciò che si sta mostrando (e che nel suo cinema è stato sotto forme differenti, il secondo piano, il mondo di “voi viventi”, il ramo).
L’umanità dell’uomo non è qualcosa di dato, ma una conquista: la capacità di affermare — nel bel mezzo di un bar popolato da avventori catatonici che cercano riparo dal freddo natalizio fissando, dietro ai vetri, le strade deserte della città — che il mondo, nella sua totalità, è “comunque fantastico”. Questa deleuziana credenza infondata al mondo è forse la stessa capace di insufflare la vita nei corpi dei due amanti che, come nel celebre dipinto di Marc Chagall, volano sulla città, benché ai loro piedi non vi siano campiture color pastello e abitazioni tratteggiate con linee morbide, ma cumuli di macerie e di edifici sventrati, in cui la dominante cromatica è il grigio cinereo che ricorda più la pennellata seghettata de La sposa del vento di Oskar Kokoschka. Ed è proprio in queste sequenze che l’influenza del neorealismo italiano torna a palesarsi nel cinema di Andersson, in particolare quella di Miracolo a Milano di Zavattini e De Sica: sognare un mondo dove “buongiorno vuol dire davvero buongiorno” può allora determinare una virata verso una dimensione sempre più visionaria e immaginifica.
A fare da contraltare alla credenza, terrena e quindi generatrice di vita, è invece il tormento spirituale di un sacerdote che ha perso la propria fede. Egli convive dapprima con il suo incubo ricorrente che lo vede ingiuriato dalla gente e condotto alla crocifissione, tanto da rivolgersi alla scienza, qui incarnata da uno svogliato psicologo cui sta a cuore soltanto il proprio tornaconto economico e un posto a sedere nell’autobus sul quale, immancabilmente, sale ogni giorno alla stessa ora. Del resto, come affermava lo psichiatra in You, the Living, è anche vero che è impossibile aiutare delle persone egoiste e meschine (e decise a restare tali) a essere felici se non prescrivendogli dosi sempre più massicce di farmaci. La messa in forma del dilemma morale che attanaglia il sacerdote, intento a ingollare il vino da destinare alle funzioni religiose entro lo spazio protetto della sacrestia, smorza sul nascere un pathos che potrebbe condurre verso i territori del Bergman di Luci d’inverno o altresì di film più onirico-espressionisti.
Nell’austerità della messinscena e nella plasticità esasperata dei corpi, deprivati di ogni potenziale di azione, i personaggi possono però ri-trovare un’anima e la libido vivendi proprio in quanto esseri umani. “Siamo energia”, afferma un ragazzo spiegando alla compagna il primo principio della termodinamica e, dato che in un sistema l’energia interna è sempre costante, nulla andrà perduto: in un momento imprecisato ci si potrebbe nuovamente incontrare. Tale realizzazione attuale non deve essere intesa quindi come un processo conclusivo e realizzato una volta per tutte, perché forse, un giorno, continua ad illustrare il ragazzo, ci si potrà rincontrare, anche se in un’altra forma, magari quella di una patata o di un pomodoro.
Lo stesso infinito matematico, anche a livello visivo, è espresso mediante un simbolo dalle forme chiuse e può essere spiegato a partire da un “principio”. In tal senso l’impossibilità della riconciliazione tra uno dei personaggi e Sverker Olsson, l’amico di un tempo che continua a negargli il saluto, pare interrompere il flusso dell’energia e la rigenerazione, causando una rigidità di configurazione che conduce allo scacco, all’essere bloccati in una strada deserta con un’auto in panne.
Accostarsi all’infinito implica allora il porsi quelle domande fondamentali a cui non può darsi una risposta pacificante, domande tanto scarne e persino anodine quanto arcane e incombenti; accettare gioiosamente l’inconoscibilità (“è comunque tutto fantastico”) pur continuando a rimuginarci.