Il racconto sulla nascita delle stelle è vecchio almeno quanto il cinema. Ogni apparizione divistica sul grande schermo corrisponde, in un certo senso, a una vera e propria nascita e la metafora astronomica contribuisce a rafforzare questo assunto ontologico di base. Si tratta di un racconto imparentato (foto)geneticamente con il mito di Pigmalione e Galatea (Stoichita 2006): essendo la star una sorta di simulacro – un doppio immaginifico scolpito sulle sembianze di una persona in carne e ossa, una creatura ibrida generata dalla fusione tra attrice e personaggio, allo stesso tempo «reale e irreale, opera d’arte e proiezione, fantasma tecnico e conturbante oggetto del desiderio» (p. 211) – la sua creazione ha sempre a che vedere con una qualche forma di metamorfosi e con un artefice in grado di catalizzarne l’inizializzazione.
Nel caso di film come A Star Is Born (Cooper, 2018) il mito rivive direttamente nella diegesi: al centro della vicenda vi sono una cantante bruttina ma talentuosa che attende di essere riconosciuta, la cameriera Ally (Stefani Germanotta alias Lady Gaga), e il pigmalione-amante di turno, il cantante alcolizzato Jackson Maine (Bradley Cooper), che si fa carico della sua metamorfosi con esiti più o meno prevedibili e, almeno in parte, positivi. Se nelle diverse versioni letterarie del mito (da quella rielaborata da Ovidio nelle Metamorfosi fino al Pigmalione di George Bernard Shaw, per citare le più celebri) la storia segue il destino del personaggio femminile attraverso le varie fasi della metamorfosi fino all’attestazione definitiva della sua nuova identità, al cinema la creazione della diva, di fatto, comporta una de-creazione del pigmalione, che non è in grado di reggere il confronto con la sua creatura – ormai separata da lui, completamente indipendente – e intraprende con consapevolezza il cammino dell’autodistruzione. Il potenziale melodrammatico della vicenda si sposta, dunque, interamente sul polo maschile, sfatando il topos di genere che vede la donna soccombere sotto i colpi spietati dell’elusione d’amore e restare confinata in un tetro interludio di inconoscibilità (Cavell 1996).
Quello diretto da Cooper è l’ultimo di una serie di remake omonimi, tutti derivati dal film del 1937 di William A. Wellman – interpretato da Janet Gaynor e Fredric March – e a sua volta ricalcato sulla trama dell’antecedente A che prezzo Hollywood? (1932) di George Cukor. È lo stesso Cukor a firmare il primo remake nel 1954, facendone un sontuoso musical celebrante la classicità hollywoodiana (Jandelli 2007) con Judy Garland e James Mason, mentre il secondo risale al 1976 (regia di Frank Pierson) e ha per protagonisti Barbra Streisand e Kris Kristofferson. La struttura mitica dei quattro A Star Is Born ha attraversato gli ultimi ottant’anni di evoluzione dello star system senza presentare particolari incrinature: da un film all’altro cambia qualche dettaglio – i volti, i corpi, i nomi dei personaggi, la loro professione (attori o cantanti), il contesto di riferimento, il genere musicale, le modalità con cui si esplica il passaggio finale – alcune battute celebri tornano a infestare i dialoghi con la loro spettrale presenza, altre invece si estinguono nel gorgo temporale che vede avvicendarsi inesorabilmente decadi, secoli e millenni, ma il mythos originario si ripresenta uguale a se stesso nella sua compattezza immarcescibile.
Rispetto alle precedenti stelle (Gaynor, Garland e Streisand), l’astro di Lady Gaga, di fatto, sorge con questo film. La sua è una nascita cinematografica autentica, un’aurora, una prima volta. Non ha bisogno di rinascere, risorgere, di rilanciare la propria immagine, si trova già allo zenit della sua popolarità mediatica di musicista, performer e fashion icon. L’operazione compiuta dal suo pigmalione Bradley Cooper – nella doppia accezione di personaggio e di regista (la seconda certamente meno riuscita della prima, essendo anche il suo un esordio dietro la macchina da presa) – è interessante perché ci mostra, in maniera totalmente credibile, la donna Stefani Germanotta racchiusa nel corpo metamorfico ed eccessivo della popstar Lady Gaga, per una volta senza maschere, senza parrucche, senza trucco pesante, senza abiti scultura, senza tacchi vertiginosi.
Un lavoro di sottrazione meticoloso e certosino, sottolineato anche dai momenti della storia in cui il personaggio di Jackson prova a scoprire il vero volto di Ally, tirandole via le sopracciglia finte e chiedendole di eliminare trucco e tintura. Un passaggio presente anche negli altri film, ma che in questo contesto acquisisce un valore peculiare perché connesso alla dimensione divistica queer di Gaga – non a caso, il primo incontro tra i due avviene in un locale notturno dove Ally si esibisce vestita da drag queen cantando La vie en rose. La parte del film che funziona meglio è quella in cui la star si mostra nella sua nudità di donna reale, a discapito del prosieguo, in cui è nuovamente Gaga a palesarsi, come una rediviva Mrs Hide emersa dalle nebbie di un ordinario filmico impossibile.
L’altro dato rimarcabile riguarda, a mio avviso, la questione della voce, che si impone sull’immagine in termini non scontati: non si tratta tanto di celebrare il talento vocale di un’interprete – come invece avviene nelle precedenti versioni, tiranneggiate dai virtuosismi di Garland e Streisand –, ma piuttosto di attestarne la verità artistica, che evidentemente ingloba nel personaggio di Ally anche la dimensione autoriale, di songwriter, che è poi quella di Lady Gaga (autrice del soundtrack con Cooper). Ed è proprio questa verità a risaltare nelle scene più significative del film, vale a dire quelle in cui Jackson Maine ed Ally si esibiscono insieme sul palco. Si potrebbe parlare banalmente di chimica, di un felice connubio attoriale che contribuisce alla riuscita, seppur parziale, di questa ennesima operazione remake, ma ciò che succede in quelle scene racconta ben altro.
Quando risponde alla chiamata alla ribalta di Jackson, è come se il corpo della neonata star si animasse, prendesse fuoco, e lo spettatore ha il privilegio di assistere al parto di una vocalità luminosa: un transito doloroso che si imprime sull’imperfezione fisica di Ally-Germanotta trasfigurandola. Il suo è un canto che nasce dalla difformità, dalle contrazioni facciali, dalle smorfie, dai sussulti. Non è bello a vedersi, non è mera esibizione tecnica, ma è il risultato prodigioso di un sentire che consente alle note e alle parole di marchiare il tessuto umano dell’interprete e di emergere in superficie, in un riverbero sinestetico che si riproietta infine dall’attrice allo schermo.
Musica per i miei occhi, recita il titolo di una delle canzoni del film: «Your voice is quite a view, I heard a song a then I saw you». Non a caso, in questa versione della storia il pigmalione Jackson Maine soffre di acufene, un disturbo uditivo che compromette irrimediabilmente la sua capacità di sentire la musica. Per questo ha bisogno di vederla e attraverso la sua pupilla (letteralmente, “fanciulla nell’occhio dell’osservatore”) è in grado di riappropriarsi del linguaggio musicale – un linguaggio semplice, essenziale, fatto di dodici note che si ripetono da un’ottava all’altra – e di rinascere a sua volta come artista-creatore, almeno in una prima fase della storia, fino a quando il successo non porterà Ally a intraprendere la carriera da solista.
Lo spiega bene nel finale il personaggio del fratello di lui, Bobby (interpretato da un efficacissimo Sam Elliott), quando confessa che Jackson amava il modo in cui Ally vede la musica. In questo sofisticato gioco di rispecchiamenti, gli sguardi si fondono con le voci, le immagini con le parole, i songwriter con i cantanti, i registi con gli attori, i pigmalioni con le galatee, esasperando la doppiezza connaturata alla figura della diva: un’immensa Lady Gaga che nella sua nuova pelle fotogenica, nel suo cinematografico venire al mondo, rivive le sembianze di un racconto antichissimo, facendosi incubatrice di una verità musicale che, sorprendentemente, è visibile agli occhi.
Riferimenti bibliografici
S. Cavell, Contesting Tears: The Hollywood Melodrama of the Unknown Woman, Chicago University Press, Chicago 1996.
V. Stoichita, L’Effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, il Saggiatore, Milano 2006.
C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Marsilio, Venezia 2007.