Una ventina di corpi femminili legati da un filo rosso su cui corrono mani decise, amiche, mai imbarazzate, desiderose di incontrare la pelle delle altre e al contempo di stabilire con fierezza il proprio itinerario. Questa la sequenza che apre il documentario Si dice di me di Isabella Mari, opera prima dedicata ad una realtà che dalle prime battute cattura l’attenzione e il cuore dello spettatore: il laboratorio teatrale con sole donne ideato e guidato da trent’anni da Marina Rippa nello spazio comunale “Piazza Forcella”, uno dei quartieri più difficili di Napoli. Il film segue passo passo le fasi di preparazione di uno spettacolo previsto per la primavera 2020, poi saltato per ovvie ragioni e ripreso e lasciato ancora nel corso dei mesi avvenire a causa della straziante altalena dei coprifuoco pandemici.

Non è però tanto la costruzione dello spettacolo in sé (narrazione, battute, prove dei movimenti di scena) che la regista ci mostra – indicativa da questo punto di vista la scelta di non riprendere la performance quando finalmente le donne riescono ad andare in scena con “Antenate” debuttando in una delle sale storiche dell’Archivio di stato di Napoli. Mari sceglie di rendere spettacolo tutto ciò che è rispetto ad esso liminale: gli esercizi per l’anima e per il corpo che le donne compiono dirette da Rippa per imparare a muoversi nello spazio, interagire con le altre, tenere una presenza scenica sul palco; i racconti di ognuna di loro su cosa le ha portate a cercare quel momento di condivisione, di libertà, di ribellione dalla vita quotidiana che le costringe a casa a badare alla famiglia (naturalmente in contesti in cui vige ancora una gerarchia tutta all’insegna del maschile, paragonabile, a loro detta, alla cultura musulmana) o a svolgere lavori a cui sono arrivate per necessità e non per passione, men che meno per ambizione (quasi tutte hanno a malapena il diploma della scuola media, in qualche caso strappato con tenacia alle istituzioni dentro la cornice di una vita già adulta, che lascia l’unico spazio delle lezioni serali).

In sostanza la macchina da presa della cineasta occupa lo spazio che il teatro lascia al cinema, senza mai sottrargli la potenza della presentificazione delle azioni sceniche che potrebbe solo duplicare, ma lasciando con rispetto che il teatro si faccia “altrove” e che le inquadrature sappiano invece raccontare i suoi slanci e i suoi residui, la tensione che precede la realizzazione di un progetto e l’appagato rilascio che questo (anche quando non viene effettivamente messo in scena) sedimenta nei gesti, nei volti, nelle parole di chi lo ha composto – il bellissimo sorriso di Rippa con cui si chiude il film.

In questo senso è fondamentale lo statuto femminile del film. Le donne, ben più degli uomini, sono capaci di vivere la marginalità e di trasformarla in qualcosa di eccezionale. I gruppi «minori», così li chiamerebbero Deleuze e Guattari, sono le «comunità potenziali» del futuro, che agiscono in principio nell’ombra di qualcosa di apparentemente più grande per ribaltare a sorpresa il piano di realtà a proprio favore. È nelle zone marginali, liminali, che si progettano con più ardore e più lucidità i sogni a prima vista inesaudibili. È al “fianco” di qualcos’altro che si hanno un tempo e uno spazio intimi, in grado di sfruttare la condizione centrifuga e mai accentratrice della propria esistenza per osservare, imparare, agire.

Questi aspetti riguardano le storie di tutte le donne del film – Marina compresa, donna che assiste il marito malato e riesce a sposarlo per coronare una vita insieme prima che scompaia mentre, a lato, coltiva tra libri e materiali accumulati nel tempo una passione che, più che coincidere con l’arte teatrale, si riversa nello spazio collettivo fatto di fisicità che hanno voglia di incontrarsi, toccarsi, comunicare (anche in un tempo come quello virale in cui questo sembra impossibile). Più in generale, è “Piazza Forcella” a costituire in modo intrinseco uno spazio a latere delle definizioni che comunemente accompagnano quel quartiere di Napoli, lavorando con audacia e cura attraverso la Storia, come dimostrano gli archivi che Mari inserisce nel montaggio, ad un’idea diversa di comunità, che utilizzi il teatro come strumento terapeutico – il lavoro che le donne sono portate a compiere su loro stesse – e politico – la relazione che intessono tra di loro e diventa gradualmente inscalfibile, quasi noncurante di ciò che accade intorno (da chi pensa male di loro perché vanno a “fare il teatro” ad un virus che vorrebbe separarle).

Ma in modo più sottile, come si diceva prima, la “liminalità” riguarda la capacità di dare vita ad uno spazio teatrale senza necessariamente rendere la scena teatrale protagonista. Tutte le donne raccontate da Mari individuano nel fare teatro in primis la possibilità di essere qualcosa di diverso rispetto all’immagine a cui hanno sentito di aderire sino a quel momento. Dunque, in altre parole, sono ben contente di vivere un’esperienza che le porta anche solo “a lato” della scena. Potrebbero non fare mai un vero spettacolo – e di fatto questo accade per molti mesi – e si sentirebbero comunque appagate dall’esserci, nel senso profondo di collocarsi dentro un orizzonte esistenziale che le renda finalmente soggetti. “Io non so che ci faccio qui. Quello che è sicuro è che ci sto”, è quello che in modo eloquente afferma Melina, descritta come la donna che “ha trainato” tutte le altre convincendole ad iscriversi al laboratorio. E difatti, in modo significativo, il teatro viene da molte di loro paragonato ad un amante, un rapporto d’amore che le porta fuori casa invitandole a tradire le proprie consuetudini, dunque qualcosa a cui “accompagnarsi”, al fianco del quale – assolutamente non coincidendovi – si possa sperimentare una vita diversa.

Un’ultima, fondamentale, “lateralità” diventa così quella che ognuna di loro esercita nei confronti dell’altra. Sapersi sostenere, scortare a vicenda – letteralmente, come quando Marina chiede di formare delle coppie in cui una conduca l’altra in una danza mentre quest’ultima racconta la sua ribellione – vuol dire innanzi tutto saper dismettere la propria individualità proiettandosi su una storia diversa dalla propria. «Sostenere la differenza» dell’altro da sé è del resto, ci ricorda Britta Sjogren, di nuovo di competenza delle donne, proprio a partire dalla familiarità femminile con l’atto del sostare dove è necessario guardare dal margine e operare da quel preciso punto di vista una trasfigurazione che lasci intatto l’oggetto mescolandovi il proprio sguardo.

Che è esattamente ciò che fa la regista con le donne di Forcella, seguendo con uno sguardo sempre tensivo i loro movimenti ma partecipandovi da un punto di osservazione diverso, a lato di una scena a cui il film non deve sovrapporsi.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2017.
B. Sjogren, Into the Vortex. Female Voice and Paradox in Film, University of Illinois Press, Chicago 2006.

Si dice di me. Regia: Isabella Mari; sceneggiatura: Isabella Mari; fotografia: Isabella Mari; montaggio: Lea Dicursi; suono: Marco Saitta; interpreti: Marina Rippa, le donne di Forcella; produzione: Parallelo 41; origine: Italia; durata: 68′; anno: 2024.

Share