Un uomo gioca con sua moglie e le sue bambine. È bendato, deve acchiappare le piccole, mentre cercano di scappargli. È una giornata di sole, sulle Alpi austriache. È il 1940: Hitler è al potere da anni, la Seconda guerra mondiale è appena scoppiata. La storia del mondo è già definitivamente cambiata, non ancora quella di Franz e la sua famiglia. Tutto sembra ancora procedere come sempre, ma qualcosa, in quel gioco cieco, lascia intendere che la catastrofe sta per arrivare.
A Hidden Life è un grande film sulla libertà e su come il cinema sia in grado di raccontarla. È la storia di un uomo piccolo che, con ostinazione quasi cieca, decide di non essere complice del potere nazista. Forse non sa neppure dire perché – né per eroismo, né per grandezza d’animo – eppure non sa fare altrimenti che ripetere il suo “No”, attraverso piccoli o grandi gesti di sottrazione. Non vuol dire: “Heil Hitler!”. Non vuole combattere una guerra in cui non crede, non vuole accogliere i consigli di tutti quelli che lo scongiurano di comportarsi come richiesto dal regime, e infine non accetta di sottoscrivere la sua fedeltà a Hitler in cambio della sospensione della pena che lo condanna a morte. Nessuna ragione è sufficiente per sostenere una scelta tanto radicale e, in effetti, il film non ne profila neppure una. Piuttosto si tratta di un sentimento profondo di libertà, il solo che consente – in assenza di una vera ragione – di dire no alla volontà disumana e crudele di qualcun altro.
Persino la possibilità dell’amore sta dentro questa condizione: per questa ragione Franz, il protagonista del film – ispirato alla figura di un contadino austriaco, obiettore sotto il regime hitleriano –, può rimanere fermo nella sua decisione e non mostrare alcun cedimento, anche di fronte alle lacrime di sua moglie, arrivata fino in carcere per incontrarlo e forse provare a convincerlo, poche ore prima della sua esecuzione. Ancora in quel momento avrebbe potuto risparmiarsi la vita, per la sua sposa e le sue tre bambine, ancora troppo piccole per crescere senza un padre. Ma l’unico modo che Franz ha di amare è da uomo libero, perché amore e libertà sono esattamente lo stesso sentimento e non si dicono se non nella forma dell’assoluto: quella che il cinema di Malick continua a esplorare, con la stessa ostinazione che sostiene la scelta del protagonista di questo ultimo film.
È di Malick anche la libertà di Franz: un sentimento etico ed estetico insieme, che nel film vive in ogni singola inquadratura, in ogni singolo movimento di macchina. Bazinianamente, è l’uso insistito della profondità di campo a farsi garanzia della messa in forma della libertà, in squarci di spazio dentro cui passano il tempo e la vita. Malick non direziona mai lo sguardo del suo spettatore, e garantisce anche a questo la sua libertà di vagare, perdersi a volte, per poi ritrovarsi. Anche il ritorno a un cinema narrativo, diverso da quello visionario degli ultimi anni, almeno da Tree of Life (2011) in poi, non sembra mai un passo indietro, il segno di un ripensamento. Piuttosto è l’occasione per restituire alla Storia la sua libertà, attraverso una ritrovata forma del racconto cinematografico.
Quella che il film mette in scena è una piccola storia dimenticata e dimenticabile, la cui grandezza sta proprio nella consapevolezza del suo protagonista di non poter neppur immaginare di variare, con la sua decisione, la traiettoria di destini ben più importanti di quello di un povero contadino e della sua famiglia.
Il confronto con la grande Storia passa qui – ancor più che ne La sottile linea rossa (1998) – attraverso un confronto diretto con la storia del cinema. A Hidden Life ha inizio con una lunga sequenza de Il trionfo della libertà, il capolavoro che Leni Riefenstahl, la regista più fedele del regime nazista, gira nel 1935: le riprese aeree che mostrano le ordinatissime parate naziste, i movimenti lineari della macchina da presa che segue il percorso di Hitler in mezzo alla folla che lo osanna.
A Hidden Life racconta il trionfo della volontà di un uomo uguale, eppure diverso dagli uomini del suo tempo, quelli che il cinema di Leni Riefenstahl ha raccontato come un corpo unico, capace di geometrie a cui il regime affidava uno degli strumenti più efficaci della sua propaganda. Malick inverte letteralmente quel presupposto, assunto come tale, già nelle prime scene del film, che alla volontà dei molti sostituisce il punto di vista del singolo: è il punto di vista del protagonista, ma è anche il punto di vista del regista, di cui la macchina da presa si fa testimone. Ancora una volta, Malick inverte Riefenstahl: alle inquadrature dall’alto al basso, si sostituiscono riprese all’altezza del suolo, la terra che si lavora e dà frutti, la terra in cui si è nati eppure non ci riconosce, la terra su cui ci si ama, si gioca, e infine si muore.
Ed è allora che la macchina da presa sa volgersi, come Malick ha fatto molte altre volte, verso l’alto: verso le chiome degli alberi, le campane del campanile del paese, le vette delle montagne e infine le nuvole. L’uomo, il destino del singolo, questa piccola storia, stanno esattamente nello spazio descritto dal movimento della macchina da presa: ancorato a terra e con gli occhi volti al cielo. È la stessa posizione del cinema di Malick, quella che questo film occupa: ha l’ampiezza di un respiro profondo e suona come un richiamo alla riflessione. Perché la storia è sempre anche la nostra storia, quella di uomini e donne che non possono non scegliere chi essere e da che parte stare.