Sintetizzando in modo lapidario uno dei nuclei concettuali propulsivi del monumentale progetto delle Histoire(s) du cinéma (1988-1998), Jean-Luc Godard affermava che tutto si fosse «compiuto nel momento in cui non sono stati filmati i campi di concentramento»: mentre si consumava lo sterminio di milioni di esseri umani «il cinema non era lì» per attestarlo, dimettendosi così «totalmente […] dalle proprie funzioni» (Bergala 1998, p. 336). Ontologicamente legato al reale di cui le sue immagini costituiscono una traccia materiale, il cinema avrebbe infatti avuto – secondo Godard – il dovere di onorare la vocazione testimoniale implicata in questo nesso indessicale, puntando il suo sguardo là dove il mondo più reclamava la sua attenzione. Per rispettare il “patto referenziale” stretto con la realtà, il cinema avrebbe dovuto rivolgere i suoi occhi verso l’abisso, testimoniando così le atrocità di cui l’umanità si stava dimostrando capace: dato il carattere inimmaginabile della loro cieca violenza, «i campi erano» infatti, secondo il cineasta, «la prima cosa da mostrare», ma «non si è voluto vederli. E qui tutto si è fermato» (ivi, p. 169).
Sebbene riguardino il dramma di un genocidio consumatosi quasi un secolo fa, queste riflessioni di Godard sulle implicazioni morali della vocazione testimoniale delle immagini audiovisive continuano ancora oggi ad interrogare prepotentemente le coscienze di cineasti e spettatori. È dunque proprio a partire da questo ordine di problemi che sembra opportuno leggere la delicata operazione cinematografica che Catherine Libert ha scelto di configurare – insieme a Fred Piet e Hana Al Bayaty – nel suo documentario intitolato À Gaza e proiettato in anteprima mondiale alla sessantacinquesima edizione del Festival dei Popoli. Attraverso il montaggio di centinaia di frammenti di testimonianze audiovisive girate nei mesi successivi al 7 ottobre 2023 dalla popolazione palestinese, il documentario di Libert tenta infatti di restituirci un’immagine inimmaginabile, di costruire il racconto – e, impresa ancor più ardua, il sentimento – di un capitolo tra i più tragici della lunga storia di oppressioni che ha interessato e continua ad interessare i territori occupati della Striscia di Gaza.
Dichiarato punto d’avvio del progetto del film è la presa di coscienza da parte della regista dell’esistenza di una mole sorprendente di immagini riprodotte che documentano i più recenti sviluppi delle operazioni militari israeliane in Palestina. Rovesciando in una certa misura il presupposto della riflessione godardiana sulla drammatica inadempienza de “l’occhio del Novecento” nei confronti dei suoi più gravi doveri morali, la constatazione dell’esistenza di questo materiale apre ad un altro – altrettanto radicale – ordine di questioni, inerente alla capacità (o l’incapacità) di quei documenti di farsi testimonianza. Se un tempo, ad Auschwitz, il cinema aveva tradito il suo patto referenziale con il mondo scegliendo di rivolgere il suo sguardo altrove, oggi, a Gaza, migliaia di obiettivi osservano ed immortalano – guardando tra le fiamme, sotto le macerie o dentro le coltri di fumo – una tragedia altrimenti inenarrabile. Configurandosi dunque anzitutto come un commosso omaggio al coraggio di chi ha rischiato o perso la vita per catturare quelle immagini e consegnarle ai nostri sguardi lontani, À Gaza si interroga su cosa si possa – o si debba – fare di questi documenti così fragili e preziosi.
Il film si compone, come si è detto, di immagini e di suoni registrati perlopiù amatorialmente da civili, medici e giornalisti di stanza a Gaza, il cui concitato susseguirsi è interrotto soltanto da alcuni lirici momenti di riflessione affidati alla voce over della cineasta che interviene parlando in prima persona. Le parole di Libert, gravi e dolenti, provenienti come dal fondo delle immagini, sospendono per pochi istanti il progredire del racconto per interrogarsi sui modi e sul senso del suo configurarsi. Ospitando dunque la riflessione del film sul suo stesso comporsi, questi interventi costituiscono, pur corrispondendo a momenti di stasi del racconto, i nodi più propulsivi del discorso che il film mira ad articolare. Portando ad emersione i cardini della questione radicale che attraversa – più o meno carsicamente – tutto il documentario, la voce della regista interroga queste immagini di morte interrogandosi al tempo stesso sul loro destino.
A lungo escluse dai media istituzionali, le immagini provenienti da Gaza hanno invaso nel corso dell’ultimo anno lo spazio dei social network, insinuandosi, come nota Libert, con non poco stridore “tra la pubblicità di una sciarpa in mohair” e la ricetta di una torta di mele. Per quanto ci si sforzi a rivolgersi ad esse con uno sguardo empatico e accogliente, sembra sempre più difficile non ritrovarsi costretti a misurare la dolorosa ma incolmabile distanza che intercorre tra ciò che quelle immagini ritraggono e il nostro più intimo sentire. Nonostante la loro inopinabile intensità, questi documenti sembrano in effetti aver smarrito in qualche modo la loro capacità di far vedere, perdendo la loro innata eloquenza e rischiando così di divenire – per tornare a Godard – «magre attualità […] di cui non si è fatto niente» (ivi, p. 299).
A fornirci una complessa e persuasiva chiave di lettura di questo fenomeno è Pietro Montani che lo inquadra, ne L’immaginazione intermediale, come «uno degli effetti tendenziali delle nuove tecnologie della visione» che inclinerebbero, in un mondo «sempre più ampiamente e capillarmente assimilabile al suo simulacro riproducibile», a «progettare (alla lettera: proiettare, […] metterci davanti agli occhi), un mondo indifferente» (Montani 2022, p. 55). Tanto atroce quanto amaramente opaca, questa valanga di immagini «ci chiede» allora, secondo il filosofo, «se siamo disposti a far fronte al pathos che ci ha sopraffatti» mettendo anzitutto in questione quel «carattere esclusivo» che sigilla «l’immagine in sé stessa senza lasciare alcuno spazio» per una riflessione sulle «mediazioni che sarebbero necessarie per convertire il trauma che essa documenta in qualcosa di cui si possa fare un’esperienza, visiva anzitutto» (ivi, p. 24).
Nel suo À Gaza, Catherine Libert sembra riflettere sull’urgenza di operare su questi documenti quello che potremmo definire, con Montani, un processo di «autenticazione», consistente in «un’azione di contrasto […] nei confronti dei potenti effetti di derealizzazione che caratterizzano lo statuto dei media audiovisivi» (ivi, p. 29). Ciò che il film pare suggerirci è come le immagini della tragedia palestinese costituiscano una «nuda traccia, nuda presenza testimoniale» (Cervini, Scarlato, Venzi 2010, p. 50) che può scampare all’indifferenza referenziale proprio grazie al cinema, al «laborioso e stratificato dispiegarsi dell’azione formativa del montaggio» (ivi, p. 53). È infatti attraverso «l’incessante lavorio della forma, che connette interminabile tutti i frammenti» (ivi, p. 51) che il cinema può restituire alle immagini la loro facoltà di «dire ciò che le abita e più di ciò che le abita», di «essere viste e mostrate […] come altrimenti non sarebbe possibile» (ivi, p. 53), «perché» – affermava Godard nel quarto capitolo delle Histoire(s) – «sono le forme a dirci finalmente cosa c’è in fondo alle cose».
Consapevole che «il fatto reale» possa essere «riagganciato nella sua brutale flagranza solo in forza di un supplemento di lavoro sulla forma dell’espressione» (Montani 2022, p. 41), Catherine Libert maneggia con un rigore encomiabile lo strumento formativo e conoscitivo del montaggio con l’intento di farci vedere (o, meglio, di farci sentire) le immagini dell’inferno palestinese. À Gaza sembra dunque indicarci timidamente una via per «riabilitare l’immagine alla relazione col suo altro irriducibile, col suo “fuori campo” radicale e inappropriabile» (ivi, p. 29), suggerendoci come il cinema possa farsi luogo di una vera e propria resurrezione del reale e configurarsi come uno strumento per “proteggere” – avrebbe detto ancora una volta Godard – “i morti dai vivi”. È questo allora, in definitiva, ciò che intende fare il documentario di Libert: riconsegnare alle immagini provenienti da Gaza la loro voce, usare il montaggio per far scaturire dall’associazione di due immagini (di morte) un sentimento (di tiepida speranza). Ed è questo, allora, infine, il senso profondo degli ultimi versi scritti dal poeta palestinese Refaat Alareer prima di essere assassinato, insieme a tutta la sua famiglia, dall’esercito israeliano, versi con cui À Gaza – significativamente – si conclude: “If I must die / you must live / to tell my story / […]. If I must die / let it bring hope / let it be a tale“.
Riferimenti bibliografici
A. Bergala, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Cahiers du cinéma, Paris 1998.
A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulla Histoire(s) di Jean-Luc Godard, Pellegrini Editore, Cosenza 2010.
J. Rancière, La Frase, l’immagine, la Storia, in Id., Il destino delle immagini, Pellegrini Editore, Cosenza 2003.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Meltemi, Milano 2022.
À Gaza. Regia: Catherine Libert; sceneggiatura: Catherine Libert; Hana Al Bayaty; Fred Piet; fotografia: Motaz Azaiza, Sami Amlsultan, Ahmed Younis, Solband, Hamada NasRallah, Rahaf Marwan, Mariam Abu Dagga, Lama Jamous, Mahmoud Abu Shamala, Mohammed Harara, Amir Gharabawi, Bashar Zaneen, Prince Kouta, Suhail Nasser, Loupio Dolla; musica: Solband; produzione: autoprodotto; origine: Belgio, Palestina; durata: 102’; anno: 2024.