1975–2025: The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman) ritorna nelle sale in versione restaurata dopo cinquant’anni, senza che il tempo ne abbia scalfito la vitalità. Un film che, a prescindere dall’anno in cui viene proiettato, sembra venire dal futuro per aprire un varco di riflessione sul presente. Era moderno e attualissimo allora, quando non ebbe l’immediato successo che avrebbe meritato, e continua ad esserlo adesso, in un’epoca in cui sembra ancora necessario ribadire – in maniera sovversiva, giacché più efficace – ciò che di più fondamentale viene ignorato dalle politiche reazionarie contemporanee: «Don’t dream it, be it».

È questa forse la frase più iconica del film, trasformatasi in motto e canto di autoaffermazione della comunità queer. Pronunciata dalle labbra viniliche e voluttuose di Frank-N-Furter (Tim Curry), questa ode alla libertà ha attraversato il tempo e lo spazio – il time warp – per tornare a interrogarci ancora oggi. Tra piume, corsetti e giacche di pelle, il film di Jim Sharman continua a proiettare sullo schermo l’immaginario di una libertà possibile, scandalosa, eppure necessaria. In quell’universo di canzoni e travestimenti, il desiderio si fa racconto di una metamorfosi collettiva, dove la differenza diventa corpo e la parodia si afferma come atto politico.

In una notte di pioggia, quando la strada sembra perdersi nel buio, Brad (Barry Bostwick) e Janet (Susan Sarandon) – coppia ingenua e perfettamente conforme all’ideale eteronormativo – trovano rifugio in un castello abitato da creature che sembrano provenire da un’altra dimensione. Qui regna Frank-N-Furter, scienziato e demiurgo venusiano, che sta per completare il suo esperimento: la creazione di Rocky, un corpo artificiale plasmato secondo i desideri della carne e dell’immaginazione. Ciò che comincia come una deviazione fortuita si trasforma in un viaggio di iniziazione erotica e identitaria, in cui i confini tra maschile e femminile, umano e mostruoso, realtà e spettacolo si dissolvono. 

The Rocky Horror Picture Show è una parodia delirante dei B-movie fantascientifici e del gotico classico, ma anche una celebrazione del travestimento come linguaggio di libertà. Attraverso coreografie scintillanti e corpi che si reinventano in ogni gesto, il film trasforma il musical in un rituale di metamorfosi collettiva, in cui l’eccesso diventa verità e la performance si fa pratica politica di liberazione. Il film uscì per la prima volta nelle sale durante un periodo cruciale per la rappresentazione dell’omosessualità sullo schermo.

Dopo l’allentamento del Codice Hays e dei suoi divieti morali, il cinema poté finalmente cominciare a portare personaggi dichiaratamente omosessuali sullo schermo, ma non si era ancora del tutto liberato da quei codici visivi e simbolici attraverso cui, quando non era possibile farlo apertamente, l’omosessualità veniva rappresentata in modo indiretto e sprezzante. Alcuni di questi codici sembravano ancora emergere dall’immaginario costruito da The Rocky Horror Picture Show: il travestimento, il rimando alla fantascienza, la spiccata comicità del personaggio più queer della narrazione – che, come da copione tipico dell’era del Codice, alla fine del film viene punito con la morte e risucchiato nell’oblio perché, come afferma ad un certo punto Riff Raff (Richard O’Brien), “la società va protetta”.

La cosa non stupisce neanche per un film così sovversivo e rivoluzionario poiché, come spiega Vito Russo ne Lo schermo velato. L’omosessualità nel cinema: «Quando si poté apertamente parlare di omosessualità, nei primi anni Sessanta, i gay cominciarono a morire come mosche (di solito per loro stessa mano), mentre d’altra parte continuavano a sostenere la loro funzione comica in ruoli più o meno ambigui. Su ventotto film in cui si parlava di gay dal 1969 al 1978, in ventidue i personaggi gay morivano suicidi o ammazzati» (1999).

Frank-N-Furter riunisce in sé entrambi questi aspetti – la morte imposta e la comicità – dimostrando quanto ancora ci fosse da conquistare sullo schermo e quanto, sotto una patina scintillante di apparente apertura, Hollywood restasse un mondo profondamente omofobo.

Quando appare per la prima volta in scena, il geniale e imprevedibile Frank intona una delle canzoni più iconiche del musical, presentandosi ai futuri sposi – e al pubblico in sala – come uno “sweet transvestite” proveniente dal pianeta Transylvania, nella galassia di Transexual. In questa presentazione si condensa un doppio nodo teorico e simbolico: Frank è una figura che sfugge a ogni norma – ama travestirsi e desidera indifferentemente uomini e donne – ed essendo un travestito è destinato a incarnare l’abiezione, esiliato in quella dimensione spaziale altra che il film costruisce come suo luogo d’origine. È un corpo alieno, estraneo al pianeta Terra regolato dalle prescrizioni del buon costume e della morale imposta dall’eteronormatività.

Alla luce di questa esibizione, il castello comincia a delinearsi non solo come luogo sospeso tra finzione e realtà, ma come trasfigurazione di una navicella spaziale con cui si spera che questi alieni irriverenti possano abbandonare la Terra e salvare l’umanità dalle loro riprovevoli deviazioni. E alla fine del film lo faranno davvero, quando Riff Raff e la sorella Magenta (Patricia Quinn) tenderanno una trappola a Frank e lo uccideranno, infliggendogli quella stessa morte che, in quegli anni, toccava in sorte a gran parte dei personaggi queer sullo schermo.

Eppure, nonostante si portasse addosso il segno del proprio tempo, The Rocky Horror Picture Show rappresentò un vento di rivoluzione e di anarchia assolutamente necessario, allora come adesso. Un film che, nel tornare oggi nelle sale di tutto il mondo, continua a essere accolto da un pubblico entusiasta e febbricitante, desideroso di travestirsi come i propri beniamini e intonare insieme a loro le canzoni che hanno segnato un’epoca, e forse anche la propria storia personale.

Tra i molti elementi che rendono The Rocky Horror Picture Show un oggetto irripetibile, spicca la radicalità con cui mette in crisi l’idea stessa di identità. Lo “sweet transvestite” Frank-N-Furter è il corpo in cui si compie la dissoluzione dei generi: scienziato e creatura, maschio e femmina, umano e alieno. Il travestimento diventa in lui un atto conoscitivo, un modo per attraversare le soglie del sé e sperimentare diverse forme del desiderio. Nell’universo del film, la maschera non nasconde ma rivela: è superficie sensibile attraverso cui l’identità si produce performativamente, nell’atto stesso del suo mostrarsi (Butler 1990).

Il piacere, allora, non è deviazione né colpa, ma forma di conoscenza, è un sapere incarnato che agisce contro la logica del controllo. Brad e Janet, nella loro trasformazione, apprendono che il corpo è luogo di esperienza e non di norma, che la sessualità può essere un atto di scoperta reciproca anziché di possesso. In questo modo, il film infrange i patti eteronormativi su cui si fonda la coppia borghese – la monogamia, il matrimonio, la verginità custodita fino all’altare – e sostituisce alla purezza il disordine fertile del desiderio. Ma la forza sovversiva di The Rocky Horror Picture Show non si esaurisce nella sua messa in scena del desiderio. Il film di Sharman non è solo un racconto di corpi che si trasformano, ma un dispositivo che chiede allo spettatore di trasformarsi a sua volta.

Il piacere e l’eccesso, la comicità e l’ironia diventano contagio: ciò che accade sullo schermo invita chi guarda a partecipare, a rompere la distanza e ad abitare la scena. Inizialmente un insuccesso commerciale, il film trovò solo in seguito la propria forma definitiva nelle proiezioni di mezzanotte, dove divenne un’esperienza collettiva – tra cori, travestimenti e battute restituite al ritmo delle canzoni – trasformando la visione in una performance condivisa. Da decenni, The Rocky Horror Picture Show si ripete come teatro notturno che disfa e ricompone le identità, rinnovando la possibilità di essere altro. E in quell’istante sospeso, anche lo spettatore smette di guardare e comincia a esistere davvero.

Riferimenti bibliografici
J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, Londra – New York 1990.
V. Russo, Lo schermo velato. L’omosessualità nel cinema, Baldini&Castoldi, Milano 1999.

The Rocky Horror Picture Show. Regia: Jim Sharman; sceneggiatura: Richard O’Brien, Jim Sharman; fotografia: Peter Suschitzky; montaggio: Graeme Clifford; musiche: Richard Hartley; interpreti: Tim Curry, Susan Sarandon, Barry Bostwick; produzione: Michael White Productions; origine: Inghilterra, USA; durata: 100’; anno: 1975.

Tags     corpo, libertà, queer
Share