Nel nome di Chiara

di SIMONA ARILLOTTA

A Chiara di Jonas Carpignano.

A Chiara

Chiara (Swamy Rotolo) ha 15 anni e una vita apparentemente normale: vive a Gioia Tauro con la famiglia e trascorre il suo tempo tra palestra, scuola, uscite con le amiche, musica e Instagram. Durante i festeggiamenti per il diciottesimo compleanno della sorella Giulia (Grecia Rotolo), tuttavia, qualcosa accade: Chiara vede arrivare alcuni uomini, prontamente fermati all’ingresso del ristorante dal gruppo di cugini e amici che gravitano intorno alla famiglia, poi il padre (Claudio Rotolo) – un uomo dall’aspetto mite, che si emoziona quando gli viene chiesto di fare un brindisi di auguri per la figlia – esce dalla sala e lascia la festa. È il momento in cui tutto cambia: una volta a casa, la ragazza sente i genitori litigare, poi – di nuovo – il padre si allontana, meglio, sparisce. Inutili i tentativi di chiedere cosa stia accadendo: nessuno dice nulla, per loro Chiara è ancora una bambina, troppo piccola per comprendere. Inghiottita da quel buco nero che le si apre letteralmente sotto i piedi, la ragazza dovrà cercare da sola la verità, mettendo insieme brandelli di informazioni, di parole, di ricordi.

Con A Chiara – presentato all’ultimo festival di Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs – il regista italo-americano Jonas Carpignano sembra voler chiudere il suo lavoro sulla Calabria iniziato ormai 10 anni fa con il suo arrivo a Gioia Tauro: lì, nella “piana” – “a chjiana” per i calabresi, e da cui prende anche il titolo il primo lungometraggio del regista – vivono Ayiva (Koudous Seihun), protagonista di Mediterranea (2015), e Pio (Pio Amato), il ragazzo rom di A Ciambra (2017). Ma è certo nel nome di Chiara, tuttavia, che la riflessione di Carpignano su uno dei luoghi più problematici dell’intera regione sembra raggiungere una piena maturità, tanto stilistica quanto di ricerca sui personaggi. Ed è per tale motivo che non è possibile scrivere di A Chiara senza fare riferimento all’intero universo narrativo che Carpignano crea a partire dalla traccia del reale.

Sarebbe stato facile raccontare una storia di mafia secondo i canoni del gangster movie, spettacolarizzando la criminalità organizzata attraverso inseguimenti e sparatorie per le strade di Gioia Tauro, ma questo avrebbe significato snaturare il frutto di un lavoro sul campo decennale. Ancora una volta, Carpignano filma a partire dagli attori – tutti non professionisti – con i quali entra in un rapporto simbiotico, ed è per questo che con A Chiara, siamo ben oltre il cinema del pedinamento di zavattiniana memoria: Carpignano annulla ogni distanza così che, a volte, sembra che la macchina da presa respiri con gli stessi attori. Una vicinanza estrema, insomma, spesso al limite del sopportabile. Come nella lunga parte dedicata alla festa di Giulia, in cui il primo piano amplifica quella sensazione di una tranquillità talmente banale da non poter essere che posticcia, innaturale, fastidiosa. E, di fatto, tutto poggia su una grande menzogna – anche quando Chiara chiederà alla zia di giurare che nessuno è nei guai, la donna giurerà sapendo di mentire – e il regista sembra suggerirci che è solo nella vicinanza che possiamo scorgere il momento esatto in cui quell’apparente normalità comincia a smarginarsi, precipitando e diventando altro. Se il padre non è più il cavaliere che balla e gioca con le proprie figlie, lentamente anche gli altri membri della famiglia cominciano a svelarsi: la madre, la sorella, la zia, il cugino, diventano, in questo senso, irriconoscibili. E nel momento in cui il mondo così come lo conosciamo si disgrega, è necessario ripercorrere il percorso a ritroso per ritrovare noi stessi.

Gioia Tauro è un luogo di per sé marginale, ma al suo interno altri spazi di chiusura vengono prodotti: la tendopoli in cui vive Ayva, la “ciambra” della famiglia di Pio e, infine, la casa di Chiara. Tre mondi separati che tuttavia si legano attraverso l’illecito (quando durante uno dei suoi pedinamenti Chiara finisce nella “ciambra”, verrà riconosciuta dalla madre di Pio in quanto “figlia di Claudio”). Se i primi due sono notoriamente spazi di esclusione sociale, degli ultimi, che non prevedono possibilità di contaminazione con il resto della società, la casa di Chiara, apparentemente integrata nella collettività, nasconde una chiusura fisica e simbolica ben più radicale: è lì che la ragazza trova uno dei bunker dentro il quale si nasconde suo padre, e dove a sua volta Chiara si nasconderà per non essere trovata.

In questo senso se, come scrive Canadè (2017), il lavoro di Carpignano restituisce alla visione luoghi e corpi solitamente esclusi dalla rappresentazione, con A Chiara il regista supera un ulteriore limite e ci porta in un luogo che non solo non può essere tracciato, ma che – appunto – non deve essere visto (mentre dall’interno dei bunker, un sistema di telecamere permette al padre di Chiara di osservare tutto). Allo stesso tempo, uscire da quella casa significa rompere quel “ciclo ereditario” – come lo definirà l’assistente sociale – che lega la ragazza alle logiche malavitose della propria famiglia. Così come Pio, che sceglie di tradire l’amico Ayiva per rispondere alle richieste della famiglia (sia Pio che Ayiva tornano con piccoli incisi anche nell’ultimo film di Carpignano), neanche Chiara sembra voler – e poter – rinunciare a quel legame con il proprio spazio chiuso, pena lo smarrimento della propria identità. Chi è, infatti, Chiara senza ciò che fino a quel momento ha rappresentato il suo orizzonte di riferimento (la famiglia, la città…)?

“Chisti simu” – letteralmente “questi siamo” – è un modo di dire che chi è nato in Calabria sente ripetere spesso. Una sorta di consapevolezza stanca, deresponsabilizzante, che lega ciò che siamo a un destino immutabile, già scritto. Quando Claudio porta con sé la figlia per farle vedere che lui non ammazza nessuno ma che è solo coinvolto nel traffico di droga, davanti a una borsa piena di soldi prima chiede alla figlia se “questo è un brutto lavoro”, poi termina dicendo, appunto: chisti simu. Solo allora, davanti a un destino che appare come inevitabile, segnato una volta per tutte e fatto di viaggi nel portabagagli, posti di blocco, paura, che Chiara decide che no: lei non è quello, il processo non è ancora diventato irreversibile. E per questo motivo decide di partire. Tre anni dopo ritroviamo Chiara alle prese con i festeggiamenti per il raggiungimento della sua maggiore età con la sua nuova famiglia adottiva e con i suoi nuovi amici: lontana da Gioia Tauro, Chiara sembra aver spezzato quella forza di attrazione che, invece, tiene legati lì Pio e Ayiva. La famiglia d’origine è un’immagine riflessa nello specchio, o forse oltre lo specchio, in quel mondo altro fatto di botole, di segreti, di “ciambre”. Chiara adesso corre, non più sul tapis roulant di una palestra ma finalmente all’aperto. Ed è solo allora che la macchina da presa può lasciarla andare.

A Chiara. Regia: Jonas Carpignano; sceneggiatura: Jonas Carpignano; interpreti: Swamy Rotolo, Claudio Rotolo, Grecia Rotolo, Giuseppina Palumbo, Giorgia Rotolo, Salvatore Rotolo, Rosa Caccamo, Concetta Grillo, Carmela Fumo, Carmelo Rotolo; produzione: arte, Stayblack, Haut et Court, Rai Cinema; Eurimages, CNC, Ministero della Cultura; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia; durata: 121′; anno: 2021.

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