L’arte non ha niente a che fare con la mimesi. Non imita il mondo, nasce invece da un uso ludico dello stesso, dal “come se” piuttosto che dal somigliare, dalla “sostituzione” piuttosto che dalla referenza. È questa in sintesi la tesi, capitale, di un breve ma giustamente noto saggio di Ernst H. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa, incluso nel volume dall’omonimo titolo, ripubblicato di recente da Mimesis. Il problema della somiglianza iconica o della referenza linguistica è secondo rispetto ad un più originario problema di un uso simulativo del mondo e della materia, dove la distinzione tra il soggetto e l’oggetto non è ancora venuta pienamente a compiersi e dove esperienza e pratica umane affondano in una sincretica sfera magico-ludica:

Non è più di moda discutere delle "origini dell’arte". Ma l’origine del cavalluccio a manico di scopa è un argomento intorno al quale è lecito imbastire un’ipotesi. Immaginiamo, dunque, che il “cavaliere” che fieramente galoppa sul suo bastone decida, in uno spirito di gioco o di magia – e, del resto, come distinguere tra i due? –, di mettervi una briglia “vera”, e che poi gli sia venuta la tentazione di dare al bastone due occhi piantati sulla estremità tenuta in alto. Un po’ di erba farà da criniera. E a questo punto possiamo dire che il nostro inventore è veramente “a cavallo”, poiché il suo desiderio è praticamente realizzato: il suo cavallo se lo è fabbricato da sé (2024, p. 23).

Il fondamento ludico della creazione è in definitiva questo: inventare un cavallo usando un oggetto del mondo, mascherarlo, truccarlo; o anche solo semplicemente cavalcarlo come se fosse un cavallo. Dunque qualcosa che sta per un cavallo, ma non per un eccesso di astrazione simbolica (non sono in gioco particolari tratti distintivi, se non quelli che rendono l’oggetto cavalcabile), ma per la disponibilità della materia ad essere usata per accogliere la proiezione soggettiva di colui che la sta usando per giocarci, per fare una magia, per creare arte. In definitiva per reinventare il mondo. Il come se della simulazione manipolatoria dell’oggetto riposa oltre che sulla disponibilità della materia ad essere usata come altro (è il caso dei lacci delle scarpe usati come spaghetti in La febbre dell’oro), anche e soprattutto sul desiderio di cavalcare, sul fatto che cavalcare sia importante (ivi, p. 28).

E in assenza dell’oggetto, cioè del cavallo, e della capacità di cavalcarlo – ma tale assenza e tale incapacità non sono mancanze occasionali ma il destino antropologico dell’uomo – l’uomo procede creativamente attraverso sostituti. E questi sostituti si rendono effettivamente tali solo all’incrocio tra l’oggettività del mondo e la soggettiva dell’uomo. Questo vale anche per le immagini pittoriche, dove il portato imitativo è secondario rispetto al loro stare per, alla loro funzione-sostituti: «Tutta l’arte è un “fabbricare immagini”, e tutto il fabbricare immagini è radicato nella creazione di sostituti» (ivi, p. 34).

Un sostituto si genera all’incrocio tra il darsi oggettivo della materia e la proiezione soggettiva dell’uomo. Per cui l’eventuale somiglianza, che rimanderebbe ad un rapporto tra il “segno” e il “mondo”, è fondata in una relazione più radicale ed originaria che costituisce una zona di indiscernibilità in cui la materia può assumere una funzione sostitutiva e “stare per”: «La macchia nel dipinto di Manet che sta a rappresentare un cavallo è altrettanto lontana dall’imitarne la forma esterna quanto lo sia il nostro cavalluccio a manico di scopa» (ivi, p. 37).

Il completamento della figura non è affidato alla linea, ma allo spettatore che usa l’alterità dell’oggetto e della materia, una macchia di colore, per farne altra cosa, per esempio un cavallo. E questo accade anche negli “sfocati” di Leonardo, nelle “macchie di umidità” sui muri che diventano altro nelle interpretazioni di chi le guarda. Una macchia si fa cavallo solo se lo spettatore si mantiene alla giusta distanza, quella capace di rendere forma una materia. Se ci avviciniamo troppo al quadro, la proiezione soggettiva è inibita, il cavallo scompare, resta solo la macchia di colore. Quel campo intermedio tra il soggetto e l’oggetto sfuma. Ed è il campo intermedio quello in cui si genera l’atto creativo (del quale fa parte anche l’atto spettatoriale), quel campo potenziale in cui nasce la creazione. Un campo «transizionale» (Winnicott 2019) in cui solo è possibile creare, e cioè usare creativamente ciò che già c’è.

Se all’origine dell’arte c’è una pratica “sostitutiva”, tale origine riguarda anche le prime fasi di vita del bambino, in cui l’«oggetto transizionale» (ibidem) funge da sostituto del seno materno, e dove si viene a creare una zona di indeterminazione tra il soggetto e l’oggetto. L’oggettività del mondo, distinta dal soggetto, viene, superato il momento fusionale, usata soggettivamente, dando vita ad una pratica di sostituzione. E questo accade prima della necessaria separazione logico-discorsiva tra soggetto ed oggetto. Dunque, l’origine dell’arte ci mostra il suo carattere strutturalmente e non occasionalmente “regressivo”, capace di affondare in quel “pensiero sensuoso”, intrecciato con gli oggetti (di cui ci ha detto a più riprese Ėjzenštejn), in cui si alimenta la creatività.

È l’oggettività e la disponibilità della materia, del linguaggio e del mondo, a stare di volta in volta per “altro”, ad essere usata ludicamente ed artisticamente per creare “sostituti”. Questo fondamento psico-antropologico della creazione non ha nulla di mimetico. La rappresentazione che ne discende, con la conseguente investitura simbolica, è del tutto subordinata. Questo lo vediamo nella più originaria delle arti, quella che si rende indistinguibile dalla vita stessa, cioè il teatro e l’arte della recitazione. L’identico verbo in lingua inglese indica giocare e recitare (to play). Una identica pratica, con lo stesso spirito regressivo, è a fondamento di entrambe.

Recitare significa creare sostituti partendo da quella materia che è l’attore e il suo corpo. L’attore (perlomeno il più grande) non imita mai veramente, ma presta la materia del suo corpo all’altro, il personaggio. Diventa altro senza mai smettere di essere se stesso. Dunque recitare significa abitare lo spazio eminentemente transizionale dello stare per, per cui l’attore non è il personaggio, ma non è neanche completamente distinto da questo (abita una doppia negazione direbbe Schechner). È come se fosse il personaggio, continuando ad essere se stesso. È lo scarto dal personaggio, ciò che non si risolve completamente in esso quando l’attore gli dà corpo, a contare veramente nella recitazione.

E in fondo vivere non è forse questo, un teatro naturale? Non si tratta che prestarsi alla maschera psico-sociale che ci rappresenta senza coincidervi. Il soggetto sta sempre altrove pur essendo la sua maschera, pur essendo inscindibile da questa. Viviamo sempre nella condizione creativa del come se, è questa la condizione della libertà umana, che l’arte non fa che ricordarci.

Riferimenti bibliografici
D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 2019.
R. Schechner, La teoria della performance 1970-1983, Bulzoni, Roma 2016.

Ernst H. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa, Mimesis, Milano 2024.

Share