Il cinema di F.J. Ossang può essere letto nei termini di un cinema post-moderno. Al di là del contenuto citazionista, però, una delle caratteristiche dell’arte tipica del post-modernismo è la rappresentazione di una realtà sociale frammentata, relativa, precaria. E come per qualsiasi approccio estetico, anche l’arte di Ossang sembra scaturire da riflessioni che, della vita, contemplano sia la superficie sia ciò che rimane nel profondo, nei pensieri consci o nella realtà dell’inconscio così com’è rappresentata, anche, attraverso la materia onirica. L’approccio della psicoanalisi sembra adatto a contemplare tanto l’esistenza quanto la necessità, a volte, di quella relatività tipica di ogni realtà.

9 dita si muove dunque attorno al tema dello smarrimento esistenziale. In tal senso, l’opera si configura come un percorso all’interno della psiche collettiva e individuale. L’analisi astratta è quella relativa all’interiorità di uno e di ognuno, attraverso la concretezza del viaggio rappresentato nel film e attraverso la scoperta di sé e dell’Altro a cui il viaggio può portare. A proposito dell’esotismo di tale viaggio e della sensazione di esplorazione dell’inconscio oltre che della realtà fattuale, in un contesto letterario l’affinità tematica e stilistica può essere colta, ad esempio, in un’opera come Cuore di tenebra (J. Conrad, 1902). La presenza del nome Kurtz tra i personaggi, sembra legittimare l’ipotesi di un possibile accostamento con il romanzo di Conrad. Si legge in Cuore di tenebra:

Mi sento come se cercassi di raccontarvi un sogno, e sarebbe un tentativo inutile, perché nessun resoconto di un sogno può trasmettere la sensazione che nel sogno si prova, quella mescolanza di assurdità, di sorpresa e di smarrimento, in un fremito di spasmodica rivolta, quell’impressione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni (Conrad 1997, p. 39).

Il passo di Conrad permette dunque l’accostamento ad una tematica sottesa nel film di Ossang: su tutto il discorso sembra infatti profilarsi non tanto la possibilità di una sublimazione del reale attraverso la creazione artistica, quanto, invece, l’impossibilità di quello stesso tentativo sublimante o, in termini già più concilianti, la necessità del ritorno a quella stessa realtà che si intendeva sublimare. Non dunque la sublimazione, l’idealizzazione o la spinta mitopoietica, piuttosto il ritorno alla realtà, alla conoscenza autentica delle cose e dunque anche, infine, a un rapporto più sereno con ciò che ci circonda. L’arte corrisponde al viaggio: tortuoso, difficile, persino estenuante; ma trattasi di viaggio di ritorno, per tornare a riconsiderare ciò che prima si ignorava o di cui si diffidava. Per tornare a riconsiderare se stessi.

Il viaggio di Magloire, nel film, è un progressivo isolamento dal mondo esterno, a partire dall’allontanamento a bordo della nave. All’interno della nave, sembrano diffondersi la malattia, la follia, ma anche la diffidenza e la mancanza d’amore. A volte, l’unica consolazione nonché l’unica possibilità di simbolizzare il proprio smacco esistenziale, sembra offerta dalla scrittura diaristica, ossia da un primo tentativo di dare forma al proprio vuoto attraverso l’espressione creativa. Il viaggio diventa presto però un viaggio fatto di attesa, senza più nemmeno comprendere cosa si attenda.

Il film, che inizia con il ritmo mosso e misterioso di un polar, si trasforma in un’opera sulla sospensione del tempo, su di un tempo che rallenta, pare fermarsi, e che sembra non più scorrere, ma lasciarsi scorrere. Il contesto visivo non solo fa da sfondo alla vicenda, ma la sorregge o, addirittura, la crea: il film sembra esistere proprio in funzione del suo estetismo. Soprattutto, però, esibendone la forma, ne svuota il contenuto; e il discorso proposto dal regista sembra in parte appoggiarsi a questa considerazione, ossia al tentativo di visualizzare tramite l’espressione estetica la nullificazione del tempo operata tanto dall’individuo quanto dalla società.

Ossang costruisce il suo film sull’estetica fotografica del bianco e nero. Utilizza un bianco e nero dai toni grigi, spesso diffusi da elementi atmosferici come la pioggia, la foschia, o le onde di un mare notturno freddo e agitato; avvalora l’espressione monocromatica con presenze luministiche, molto diffuse all’interno della nave, tanto da far apparire lo spazio come uno spazio d’ombra leggera che la luce tenta di delineare o, al contrario, di opacizzare; inverte l’ordine della condensazione visiva grazie all’uso del fotogramma negativo; concepisce lo spazio come una sorta di frammentazione visiva, soprattutto quando lo spazio tende alla riduzione, al restringimento imposto dalla macchina da presa: all’interno della nave, nelle cabine, nel caffè, o in esterno, nel pontile; ma anche nella prima parte del film, all’interno del cosiddetto Pavillon des Longues Allées.

La macchina da presa sembra complice nel rappresentare un profilmico frammentato e distorto; e tanto lo spazio appare stretto, soffocante, oscuro, quanto la macchina da presa lo ritrae da angolazioni insolite, esasperando così il senso di scomposizione e di disorientamento visivi; si aggiunga l’utilizzo di espedienti stilistici volti alla frammentazione diegetica, come il jump-cut, gli scavalcamenti di campo (realizzati in sincronia con il movimento del personaggio) o l’uso, al contrario, di piani-sequenza che però solo illusoriamente rendono l’inquadratura più coesa e scorrevole.

L’esterno della nave, infine, spesso è raffigurato in ore notturne, e si trova dunque ad essere uno spazio stretto tra la presenza massiccia e inquietante del cargo, e l’oscurità densa di un mare che, oltre la schiuma bianca, illuminata, diventa uno spazio nero, vasto, sconosciuto. Inoltre, il mare è spesso inquadrato dall’alto, e la posizione della macchina da presa, e l’essenzialità fotografica tipica del bianco e nero, contribuiscono ad appiattire lo spazio in senso bidimensionale: la nave, nelle riprese in plongée, appare come un oggetto fermo circondato da un velo liquido che, dall’alto al basso o indifferentemente dal basso all’alto, gli scivola attorno, sfiorandolo, superandolo, scorrendo su di una superficie di pura rappresentazione.

Altro elemento rilevante è il grado di teatralità con il quale è affrontata la recitazione degli attori. I personaggi, nei loro gesti, nelle loro espressioni, appaiono infatti come forme di teatralizzazione del reale. Le parole pronunciate sono spesso non solo quasi declamate, ma distorte dall’audio del film; le espressioni dei volti sono innaturali, eccessivamente contratte o irrigidite; i gesti sono spesso conclamati, tesi, e reiterati. Nel contempo, mentre tutto è teatralizzato, nella sua irrealtà tutto diviene goffo, come se, dall’immaginazione, si assumesse sempre un certo distacco, o una certa spensieratezza: e dunque, a suo modo, tutto diviene più umano.

Tale divenire assume su di sé la coscienza dell’impossibilità del raccontare o, se si vuole, di dominare il racconto attraverso la strutturazione estetica: ad emergere, infatti, è il reale che sta dietro alla rappresentazione, dietro alla sua artificiosità, dietro alla sua inadattabilità. Ma ciò che non si può raccontare, stando alle parole di Conrad, non è ciò che scaturisce dall’immaginazione, quanto, più nello specifico, ciò che proviene dal sogno. Ancora una volta, il sogno non è che l’emersione del reale. Come afferma Lacan, «il reale è al di là del sogno che dobbiamo cercarlo — […] dietro la mancanza della rappresentazione» (Lacan 2003, p. 59).

“Mi sento a pezzi”, dichiara Magloire alla sua amante. E, nel corso del film, in più occasioni egli contempla quei pezzi attraverso la superficie di uno specchio, che rimanda un riflesso a volte solo ingannevole, altre volte totalmente illusorio. Quei pezzi, inattesi, emergono a ribadire la frantumazione del reale, ma anche la sua necessaria emersione. In particolare, in due sequenze del film, assistiamo all’emersione di un reale perturbante: quando il protagonista si sveglia di soprassalto, sconvolto dal sogno appena fatto relativo alla rapina e al feroce assalto del cane di guardia alla villa; l’altro frammento sembra invece un flashforward relativo al finale disastro a bordo della nave, disastro che avverrà prima di abbandonare il cargo in direzione della terraferma.

I frammenti sono rapidi, traumatici, innestati all’improvviso e violentemente nel tessuto del film; in particolare quello relativo al sogno, per la sua veemenza, tradisce alcuni iniziali sentimenti del protagonista, quali la paura o il senso di colpa. Adattando però lo statuto simbolico del sogno anche al frammento relativo al flashforward, diviene forse possibile, infine, concepire il frammento nei termini junghiani di un atto finalistico: non più solo un’emersione dell’inconscio, ma quasi una sua indicazione tesa ad un possibile ritorno alla realtà, alla sua armonia, alla sua conciliazione. Frammento, sogno, percezione, divengono così elementi dialettici che dialogano all’interno dell’individuo al fine di una sua formazione psichica. Scrive Jung: «La psiche non va intesa solo casualmente, ma esige anche d’essere considerata finalisticamente. Soltanto l’unificazione di questi due punti di vista […] può darci una comprensione più completa della natura del sogno» (Jung 1976, p. 265).

E sempre più, verso il finale, è il film stesso a prendere la forma della realtà, a riportarla visibile, come l’oggetto di un tempo non più lontano, ma possibile; ed è dalla coscienza di quella realtà, che un altro viaggio potrà cominciare. Si segue Magloire verso terra, verso l’abbandono della nave: lo si riprende dapprima in campo lunghissimo, poi ci si avvicina, lo si coglie in un ambiente terreno, naturale, dove la luce prima abbagliante del bianco e nero diventa ora più realistica, anche se ancora, a tratti, disorientante; lo si guarda attraverso un’inquadratura a iride, come se lo si stesse spiando, come se la sua naturalità fosse lontana, non pienamente condivisibile, o forse solo non ancora pienamente realizzata, e dunque colta nel suo farsi.

L’inquadratura s’interrompe, accoglie uno sparo come un suono off durante uno stacco al nero già carico dei titoli di coda, e poi ritorna all’immagine, ancora per qualche sequenza. Magloire è vivo, si trova tra le rocce di un’isola apparentemente deserta, ed è solo. Lo sviluppo rimane incerto, perché non si può più raccontare. Però, nonostante l’apparenza non conciliatoria del finale, ecco che il testo filmico può essere letto secondo la scrittura e il pensiero di Jung:

L’uomo conscio del suo Io è una parte soltanto del tutto vivente, e la sua vita non rappresenta ancora una realizzazione del tutto [...]. Ma siccome tutto ciò che vive tende alla sua totalità, l’inevitabile unilateralità della vita cosciente trova riscontro in una costante correzione e compensazione da parte della natura universalmente umana che è in noi, allo scopo di attuare un’integrazione definitiva dell’inconscio nella coscienza o, meglio, un’assimilazione dell’Io in una più vasta personalità (Jung 1976, p. 315).

Magloire, in quella sua finale solitudine, può così continuare a camminare, a conoscere, a crescere.

Riferimenti bibliografici
J. Conrad, Cuore di tenebra, Feltrinelli, Milano 1997.
C.G. Jung, Considerazioni generali della psicologia del sogno, e L’essenza del sogno, in La dinamica dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1976.
J. Lacan, Il seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi. 1964, Einaudi, Torino 2003.

Tags     9 dita, 9 Doigts, F. J. Ossag
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